imo leggerezza

C’erano una volta le fanzine. I demo tape, le riviste di settore. E c’era la difficoltà di far girare la propria musica. Pochissimi uffici stampa, indirizzi delle testate che si potevano trovare solo acquistando i giornali. Nessuna sicurezza di recensione. Esisteva anche chi, già da allora, si faceva pagare per recensire un disco. Eppure nessuno si è mai fermato. I gruppi incidevano, pubblicavano i dischi, suonavano dal vivo. I press kit che venivano spediti alle redazioni erano più che completi. Bio, contatti, a volte merch.

Poi è arrivata internet. Tutto è diventato più semplice. Sono diventate sufficienti delle email i cui indirizzi di riferimento erano facilmente reperibili. Sono arrivati gli spazi virtuali su cui poter pubblicare il frutto del proprio lavoro. Una volta era Myspace. Poi è stato il momento dei siti. Molti si sono costruiti il proprio. Ancora avanti è stata l’epoca dei social. In seguito spotify. Tutto questo per dire, ancora una volta, come è diventato semplice far conoscere ciò che si fa. In ogni ambito. Eppure, non è tutto oro.

Non lo è perché l’impegno necessario per tenere in vita le piattaforme virtuali non è cresciuto di pari passo con l’espandersi delle stesse. Oggi come oggi potrebbe sembrare impensabile che un gruppo, un artista, un session, possa essere privo di quei canali di divulgazione divenuti imprescindibili. Eppure succede. Nella pubblicazione quotidiana delle playlist per la TDRadio una delle difficoltà maggiori è notare come diversi gruppi non abbiano il proprio profilo. Lo stesso dicasi per Youtube.

Ma non finisce qui. Un altro ‘problema’ nella compilazione delle altre rubriche, anche semplicemente delle intro per le interviste, è che molti o non hanno il sito internet, o, se ce l’hanno, non è aggiornato o, peggio ancora, è privo di biografia. Le informazioni sulla storia dei gruppi devono essere reperite con una ricerca in rete ed estrapolate da recensioni o altre interviste. Ora, che questo lo faccia io poco conta. Tuttavia se mi dovessi mettere nei panni di un promoter, del gestore di un locale, di un organizzatore di eventi, come cambierebbe il discorso?

Personalmente, se dovessi gestire un locale e volessi chiamare un gruppo a suonare per prima cosa mi informerei sul chi è questo gruppo, ancora prima del genere che propone. Se ci si lamenta perché i gruppi underground hanno troppo poco spazio per esibirsi dal vivo, chiediamoci perché. Io, gestore del locale x, sento una band che mi piace. Mi dico, vorrei suonassero da me. Sono davvero bravi. Vediamo chi sono. Se non dovessi riuscire a trovare notizie da nessuna parte, non insisterei. Passerei ad un altro artista.

Magari meno bravo, ma su cui ho maggiori informazioni. Il che nella politica di un gestore non è sbagliato. Dovendo tenere presenti anche i conti che dovrà per forza fare a fine serata, gli converrebbe chiamare il gruppo y di cui in rete non si trova nulla, o quello z di cui ci sono tracce? Anche banalmente per capire se, come organizzatore, ha possibilità di poter portare persone al concerto o meno. Purtroppo oggi il farsi trovare in rete è diventato fondamentale.

E non farsi trovare con un brano registrato dal cugino di turno con cellulare. Ma con qualcosa che sia più specifico e professionale. È un discorso che porta beneficio in primo luogo all’artista stesso. Avere una bio aggiornata, un sito con qualche foto decente, profili social che funzionano, porta più persone a scoprire la mia musica. E sono tutte iniziative che hanno come unico investimento il tempo. Certo, è la nostra risorsa più importante. È anche la nostra unica moneta di scambio per cercare di far girare il lavoro svolto. L’assunto del marketing chi non ha soldi deve avere tempo, è assolutamente vero.

Se tutti avessimo ingenti somme da investire, non avremmo bisogno di tempo per portare avanti la nostra comunicazione. Ma siccome non è così, dobbiamo metterci nell’ottica di impegnarci. Diversamente subentra la domanda: perché darsi da fare per suonare, comporre, incidere, pubblicare se poi non posso condividere con nessuno? Fermo restando che l’importante è esprimersi, la fatica per poterlo fare deve essere riconosciuta.

Almeno in termini di notorietà. E questo dipende da noi, non dai soldi che abbiamo. Se non vogliamo farlo per noi stessi, facciamolo per chi ci segue. Diamo la possibilità alle persone di poterci conoscere, oltre che di poter ascoltare la nostra musica. Se no mi chiedo: i gruppi che sono stati fermi per decenni, perché pubblicano dei dischi invece di restarsene nei loro scantinati facendo ascoltare i loro pezzi ad amici e parenti stretti? Come si suol dire, se non professionisti, si deve essere professionali.

Soprattutto perché, con questo tipo di atteggiamento, si crea da soli una classificazione in gruppi di serie A e di serie B. Nella prima c’è chi sta attento alla propria comunicazione, completamente DIY, e chi no. Non serve essere addetti stampa o social media manager. Basta mettersi nei panni di chi ascolta o lavora con i musicisti.

Personalmente se dovessi lasciare indietro tutti gli artisti sui quali è difficile reperire informazioni ne lascerei indietro davvero tanti molti dei quali più che bravi. Ma la mia è una scelta precisa. Ho deciso di investire il mio tempo in tale direzione. Di far diventare una passione un lavoro. Fuori da qui, però, molti la pensano diversamente. E non è l’avere la pappa pronta. È fare ognuno la propria parte. Il che in un’ottica underground e di condivisione è fondamentale.

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