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La classe non è acqua, diceva qualcuno. E scrivere musica di classe senza esserne consapevoli e senza rischiare di essere stucchevoli, è operazione davvero difficile. Ma non impossibile. A dimostrarlo ci pensano i Thanit con il loro disco di debutto, targato 2022, Cult of the Ancestors. Perché un’affermazione così ‘forte’ in apertura? Perché è uno dei pochi modi di poter descrivere il lavoro.

Ci sono tutti i passaggi, i suoni, le soluzioni armoniche che contraddistinguono in maniera univoca l’ottima musica. Vuoi che sia stato l’amore per la musica classica, oppure per le colonne sonore, o, ancora, per l’età dell’oro del rock. Il risultato non cambia. Diventa quindi difficile dare riferimenti stilistici univoci date le influenze su citate. Il che si tramuta in uno stile personale per la band. E qui c’è la prima, doverosa, precisazione.

La capacità di scrivere ottimi brani deriva dall’esperienza variegata e pregressa dei nostri. Infatti tutti i componenti della band hanno militato in diversi altri progetti. Questo ha inciso sulla loro crescita musicale persona e nella composizione dei brani del nuovo gruppo. Andiamo un po’ più nello specifico. Nel disco sono ben presenti coordinate aor, così come progressive, metal, hard rock.

Tutte perfettamente amalgamate. Ecco perché, improvvisamente, senza una particolare avvisaglia, nella lunga Mother compare un cantato lirico. Per lo stesso motivo cavalcate di tastiera sono inframezzate da stop metal. Ma andiamo con ordine. Il disco apre con Waiting for you. Brano strumentale. Cori eterei accompagnano tastiere che richiamano, come suono, 1984 di Van Halen. Rumore di pioggia e si passa alla successiva 02.The birth of space and time. Qui ci si rende subito conto della caratura del gruppo.

Tastiere avvolgenti, riffing serrato, introduzione di batteria. Tutto melodicissimo. Il vero ‘colpo di grazia’, in senso positivo, arriva con l’ingresso della voce di Sara Fadda. Potente, piena, coinvolgente, calda, evocativa. Tutto quello che una voce, soprattutto in ambito rock/metal, dovrebbe essere. Soprattutto non canta come nessuno. Ha una propria strada. Il che non deriva dal nulla. La tecnica, lo studio, la consapevolezza piena in ogni secondo di ciò che sta avvenendo, si sentono.

Tutte frecce scagliate dalla parte migliore. Lodevole il break centrale dove spicca il basso come quasi unico accompagnamento a solo di chitarra. Il primo segue la strada della voce. Tecnica, studio, senza esagerare. La seconda fa un lungo excursus che passa da note languide e passaggi più veloci. La reprise è affidata a un lento crescendo.

La batteria si concentra inizialmente sul rullante. Entrano gli archi e la voce con dei semplici vocalizzi. Il tutto è il preludio all’esplosione finale in piena cavalcata metallica con la voce che continua a stupire. Giunge così la lunga Mother. Una suite di 7 minuti. Si inizia molto lentamente. Introduzione si pianoforte solista che introduce il riff portante dal sapore ’80s. Motivo iterato anche con l’ingresso degli altri strumenti. Due cambi ravvicinati segnano il seguito. Il primo è un passaggio degno dei Toto.

Il secondo un’apertura hard rock. Le sorprese non finiscono. Infatti si cambia ancora registro con l’introduzione di un cantato lirico. È ancora la voce, quindi, a tenere banco. Ritorna il ritmo cadenzato per riportare il brano su binari conosciuti. Anche se con delle variazioni. Il cantato lirico non scompare. Fa da controcanto alla voce portante fino al nuovo scambio di ruoli. A metà brano l’inatteso. Viene introdotto un passaggio decisamente progressive. Tempi dispari, tastiere, voce di conseguenza. In quanto prog il frangente evolve ancora fino all’ingresso del solo. Questo poggia sull’utilizzo del wha wha e di scale minori che danno un colore evocativo. Il rientro è sul duetto lirico. Si rallenta.

Torna il riff iniziale. La voce accompagna con vocalizi operistici. Chiusura. Segue The glory of old sea man. Un brano hard rock a tutti gli effetti. Chitarra graffiante, tappeto di tastiera. Anche l’accompagnamento sotto il cantato ricalca gli stilemi del genere. Arpeggi stoppati, armonici, melodia. Interrompe questo ‘schema’ la batteria con una sequenza in doppia cassa. Torna la strofa con la chitarra in evidenza. La voce perfettamente si adatta al contesto. Pur rimanendo pulita, senza forzature, mantiene tutta la sua potenza. Il solo della sei corde si atttiene alle coordinate stilistiche. È ancora la batteria a fare la differenza.

Prima con un accompagnamento sulla campana del ride. Poi con sottolineature in doppia cassa. Passaggi non lineari che ben spezzano l’andamento. Le stesse che tengono banco al rientro della voce, questa volta lirica e acutissima. Il finale è una cavalcata in terzine in puro stile metal. La seguente Coming Home può essere paragonata solo ad una colonna sonora. Introduzione eterea. Tastiera e voce. Il basso prende le redini introducendo il ritmo. La batteria si adatta. Più che ritmica è percussiva. Un brano dai decisi caratteri prog per l’incedere e i cambi. Mutamento di passo e di tempi si affastellano.

Descriverli tutti è davvero difficile. Possono aiutare delle immagini. Si può pensare ad una battaglia navale con una persona che la osserva dalla riva in preda all’apprensione. I cambi della canzone rappresentano i galeoni, perché di questi si tratta, che si scontrano. Si ergono sulle onde di un mare tempestoso cercando di sopraffarsi. Le vele si gonfiano. Si sentono gli spari dei cannoni. Il vento sferza le prore e scapiglia gli osservatori. Una donna con una lunga veste, i capelli sciolti, osserva con le lacrime agli occhi. Urla al cielo la propria preghiera per la salvezza del suo uomo. Il solo di chitarra pare rappresentare un raggio di sole che improvvisamente squarcia il cielo. Il finale è aperto.

Sacrifice è il brano successivo. In questo caso è la lirica a dominare. Gli strumenti sono dei contorni. La batteria rimane percussiva. Almeno inizialmente. La chitarra è pulita. Il basso segue una linea melodica propria. Il tutto si riunisce solo come bridge prima del ritornello. In questo passaggio gli strumenti vanno all’unisono. Così come nel chorus a dare più impatto al cantato. Ma come ormai consuetudine, non c’è nulla di costante nell’opera dei Thinit. Infatti il brano cambia totalmente. Diventa spezzettato, pregno di tempi composti, accenti, cambi di atmosfera. Come quello che caratterizza il solo di chitarra.

È nuovamente la batteria a fare la vera differenza con accenti controtempati sui piatti. Il finale è affidato ad un complessivo crescendo. Ancora riferimenti hardrockeggianti in Born by the flames. Riferimenti su cui la band ha inserito richiami di synth. Qui sono gli anni ’70 a farsi sentire maggiormente. Il basso domina nei momenti strumentali. Come base del cantato c’è l’inarrestabile lavoro di tastiera e chitarra. Il basso ritmico segue la cassa della batteria. Circostanza dettata dal riferimento stilistico. A metà strada si cambia di nuovo. Sono le tastiere ad emergere con un a solo ELP. A questo si affianca l’intervento della citarra. Ma è il lavoro della sezione ritmica e tenere bando.

Anche nella sequenza successiva dove la batteria si distacca su passaggi più ‘solisti’. Un brano degno dei migliori Deep Purple. Si prosegue con Neverending Life. La sei corde torna al comando nell’introduzione. Andamento mid tempo che rallenta con l’ingresso della voce. Soprattutto, scelta che offre la possibilità agli strumentisti di potersi sbizzarrire in infiniti dettagli: ritmici, stilistici, compositivi. La voce rimane evocativa. Arriva la penultima Force of apocalypse. Un brano quasi speed. Sull’incedere judaspriestiano di poggia la voce lirica della Fadda. Ritmo serrato, batteria inarrestabile. La voce segue perfettamente il flusso con impennate improvvise. A circa ¾ il cambio. È il basso a dettare i tempi.

La voce diventa narrante, riverberata. Gli altri strumenti rientrano a ritmo pieno. La voce duetta con se stessa. La chitarra risolleva i tempi con un breve intervento solista. SI torna a correre fino alla chiusura. Il finale del disco è ad opera di Warmonger. Fa il suo ingresso un organo con un riff cupo. L’arrivo degli altri strumenti lo spazza via, pur mantenendo il tema. L’andamento generale è piuttosto scuro, pesante. La voce cambia spesso da semplicemente pulita a lirica. Sono presenti diversi momenti progressivi.

Tuttavia è la voce a dominare con impennate e ribassi. Circa a metà cambio. Il brano rallenta. Arriva un arpeggio di tastiera. Su questo si poggia il basso che diventa dominante. La voce non si ferma praticamente mai. È lei che porta le sensazioni della canzone e introduce il magistrale a solo. Veloce, pulito, con numerosi cambi di ritmica al proprio interno. Il suo sfumare riporta la canzone su ritmi elevati. Il cantato si contraddistingue ancora arrivando a toccare note estremamente acute. Sul finale la canzone rallenta e si toppa.

Concludendo. Come si fa a tirare le somme di un disco così complesso? Ci si deve solo complimentare con i Thanit per essere riusciti a comporre un’opera così imponente. Tutto è al posto giusto. I suoni sono più che adeguati, produzione pulita. Esecuzione magistrale. Resta solo una verifica: la resa in sede live. Con così tanti cambi vederli dal vivo deve essere davvero emozionante.

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