Noise in myself

Si prenda ciò che il rock ha prodotto di ‘alternativo’ e pesante dal grunge in poi, lo si metta assieme. miscelare con delicatezza. Aggiungere una buona dose di melodia, ¾ di voce femminile perfettamente contestualizzata. Si chiuda con un pizzico di animo giovanile nonostante i riferimenti. Mescolare, non agitare. Et voila. Ecco, con un po’ di approssimazione, la ricetta dei ticinesi Noise in myself.

I ragazzi, perché davvero di giovanissimi si tratta, affondano le proprie radici nel grunge più sanguigno. Con una particolare predilezione alla parte più oscura. Alice in Chains, My systers machine, Mad season, primissimi Soundgarden. Mother love bone. Da lì prendono la rincorsa per lanciarsi in un viaggio tra i decenni. Gli rimangono addosso come foglie secche reminiscenze di System of a down e Smashing Pumpkins. Sempre dalla parte più oscura. A ben ascoltare ci sono anche richiami ai Cramberriers, soprattutto nell’utilizzo della voce aspirata.

Una certa vena psichedelica pervade per intero il loro primo omonimo lavoro. Non mancano sferzate più decise, ma non sono mai troppo pesanti, sia come riffing sia come suoni. Lo sono per le atmosfere. La luce poco riesce a penetrare tra i solchi del cd. Domina sempre una velo più o meno spesso di oscurità. Certuni ritmi e frangenti potrebbero richiamare il doom o i passaggi più decadenti degli Evanescence. Il disco si apre con un’introduzione strumentale di poco più di due minuti.

Un arpeggio di chitarra pulita iterato. Ottima tecnica dello strumentista che alterna arpeggi classici con armonici. Sempre in pulito. Aiuta a creare atmosfera anche la scelta di post produzione di far passare il suono da una cassa all’altra. Magari un ‘trucco’ un po’ retro, ma sempre efficace. Se utilizzato in maniera adeguata. Si prosegue con Spirit of my hand. Una cavalcata oscura di 7 minuti.

Fin dalle prime note si è catapultati, con una macchina del tempo che solo la musica può far funzionare, negli anni ’90. nelle atmosfere dark/grunge di cui sopra. Voce trascinata, note lunghe. La batteria che si muove come un elefante nelle sabbie mobili. A coadiuvarla le chitarre. Riff degni dei Black Sabbat più ispirati, armonici artificiali a ricordare che siamo nel 2000 e cadenza metal in crescendo. Il brano quasi si trasforma. Rimane sempre scuro, ma più incalzante.

Ulteriore nota positiva dei Noise in my self è una certa vena prog. Grazie ad essa le composizioni evolvono, cambiano rapidamente. Cambiano il passo per poi tornare agli esordi fino all’epilogo finale. Sempre una chitarra acustica introduce la successiva Looking for a girl. Il crescendo è morbido ma inarrestabile. I suoni si induriscono in fretta. Pur non rimando tali per molto. Cambi, cambi e ancora cambi. Da arpeggio classico, a dissonante per introdurre l’ingresso delle chitarre distorte. La voce è come il lume di una candela in una stanza completamente buia.

La si segue con fiducia, sicuri che conosca la strada. A sbarrarle la via sono le ritmiche. La composizione è un continuo susseguirsi di ombre. Passaggi elettrici vengono surclassati da frangenti acustici, puliti, non lineari. Fin’anche il solo rispetta questa fluidità essendo dipanato su un tappeto flamenchegggiante. Ancora una strumentale acustica, per spezzare il ritmo. Un brano blueseggiante, ma sempre opprimente. Come opprimente è la successiva Rise the occasion.

In questa l’atmosfera si fa subito plumbea, anche come suoni. Tempi lenti, cadenzati, riffing che mano a mano si complica rendendo l’ascolto impegnativo. Un altro elemento a favore dei nostri è il non soffermarsi troppo su uno schema. Il che, se, da una parte, stimola, dall’altra spiazza completamente l’ascoltatore. Anche questa canzone non è scevra di cambi repentini. Unico filo conduttore, sono le atmosfere tese. Stuck at home è una power ballad. Lo schema è classico. Intro acustica, crescendo elettrico, pesante ma non troppo. La melodia della voce che si fa carezzevole.

Forse anche all’utilizzo del francese al posto del solito inglese. Interstellar, come nome suggerisce, parte per un viaggio spaziale. Riverberi, note lunghe, un cantato mellifluo. Tutto per fa viaggiare. Sembra di essere tornati agli anni ’70 e ad un certo tipo di sperimentazione fatta per aprire le porte della percezione. I Jefferson Airplane sarebbero fieri di questo brano. Anche con il finale saturo e pesante. Anzi, forse sarebbe piaciuto più questo. Dissonanze e ritmi percussivi si fanno avanti in The cryng of humanity. Sono i Nevermore a far sentire la propria presenza.

Magari non con tutta la tecnica di cui sono capaci, ma per atmosfere si. Pure qui non mancano alternarsi di passaggi lenti e acustici a cadenzati ed elettrici. Touching the bottom of the ocean è una lunghissima cavalcata elettrica. In essa si fa sentire in modo particolare il lavoro della batteria. Dall’utilizzo della doppia cassa (o doppio pedale) alle basi cadenzate. Diversi sono i riferimenti che emergono tra quelli già citati. La durata della canzone con i relativi cambi nel suo dipanarsi, non facilitano l’ascolto.

Che dovrebbe essere quello che la band ricerca. Quasi otto minuti di pura psichedelia oscura con alternanza di suoni distorti e puliti. Molto azzeccato il terzetto chitarra/batteria/basso a circa metà brano. La chiusura del disco è affidata a You who really are? C’è un ennesimo cambio. Si fa presente un flauto traverso ad opera di Martina Pedrotti, flautista oltre che cantante, vincitrice del primo premio Svizzero con il suo strumento nella categoria under 20, a disegnare note nell’aria. Chitarra rigorosamente acustica accompagna i racconti di questo inatteso usignolo. Si tratta di un altro brano, un medley dei riff dell’album in chiave acustica, strumentale che chiude magistralmente il cerchio.

Concludendo. Un disco molto interessante quello dei Noise in myself. Carico di elettricità, tensione, dubbi esistenziali. La tecnica ai nostri non manca, pur se giovanissimi. Così come la capacità di scrivere canzoni. Essendo un’opera prima c’è qualche aspetto da migliorare. La durata dei brani alle volte risulta eccessiva, e, di conseguenza, dispersiva. Fa perdere la giusta potenza, anche emotiva, alla canzone. Ancora. Le ritmiche cadenzate vanno bene, ma abusarne diventa pesante per l’ascoltatore.

Se poi il risultato ricercato è questo, allora è stato pienamente raggiunto. Alternare maggiormente terzinati, o quartine ritmiche amplierebbe anche il vocabolario espressivo. Come si suol dire, le capacità ci sono tutte. Così come il talento. Deve solo essere tutto indirizzato sulla strada migliore per la band per esprimere se stessi. Un disco in ogni caso consigliato. Non è un lavoro che si ascolta con leggerezza. Tutt’altro. Ma una volta assimilato, è un disco cui ci si lega. Se non per sempre, certo per lungo tempo.

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