Intervista raccolta da Benedetta Lattanzi
Jazz e letteratura: si potrebbe riassumere così Andrea Garibaldi, giovane jazzista toscano che ha da poco pubblicato il suo ultimo album, Passaggio al Bosco. Undici tracce dalle musiche «in cui si alternano e miscelano – come in un’equilibrata raccolta di sintetiche quanto taglienti narrazioni – slanci intimistici, riflessioni gentilmente tormentose, venature nostalgiche, energiche pulsioni», secondo il giornalista, scrittore e musicista Luciano Federighi. In occasione della data romana, Tempi-Dispari ha incontrato il pianista per una piacevole chiacchierata.

Il tuo album, Passaggio al Bosco, ha un titolo particolare. Puoi dire qualcosa di più al riguardo?
Deriva da un termine tedesco, Waldgänger, che può essere tradotto come “darsi alla macchia”. È un termine che viene usato da Ernst Jünger, filosofo e saggista tedesco, nel suo “Trattato del Ribelle” per descrivere il suo ideale di ribelle che sceglieva la clandestinità per uscire da una società senza più valori.

Quindi questo si può definire come la maggiore fonte di ispirazione per questo lavoro, oppure ce ne sono altre?
Sì, specialmente per la traccia iniziale del disco che prende appunto il nome “Passaggio al Bosco”, nel periodo in cui l’ho scritta stavo leggendo proprio quel libro. Ci sono altri riferimenti: essendo laureato in lettere leggo molto e, ad esempio, In quel preciso momento prende il nome dall’omonimo libro di Buzzati, poi comunque ci sono anche altri riferimenti  sia musicali che letterari.

Una cosa che salta subito all’occhio sono appunto i frequenti rimandi alla letteratura italiana. Questa tua passione ha influito sulla tua carriera musicale, anche a livello di approccio alla musica?
Sicuramente. Luciano Federighi, che ha scritto le note di copertina del disco, ha colto questa cosa del pezzo che racconta una storia, quindi questo raccontare è un po’ un riferimento alla letteratura. Oltre alle ispirazioni che posso avere magari mentre compongo, lo studio della letteratura mi ha dato una specie di approccio filologico anche mentre ascolto un disco.

Ti è mai capitato invece il processo inverso, ovvero fare una canzone dopo aver letto un libro?
Diciamo che questa cosa qui è un po’ più difficile. Perché prima nasce l’idea di una musica che spesso prende un titolo solo dopo un po’ di tempo, magari perché mi ricorda qualcosa, un momento o un libro. La musica è qualcosa di impalpabile, anche nella musica classica ad esempio succede lo stesso, le opere non prendono subito il nome che conosciamo noi oggi.

All’età di 7 anni inizi a suonare pianoforte, in seguito passi dagli studi classici al cantautorato cominciando lo studio di alcuni strumenti da autodidatta. Quale è stata la causa scatenante di questo cambiamento?
Semplice curiosità. Amando la musica in tutte le sue sfaccettature e vedendo mio padre suonare insieme agli amici mi è venuta la voglia di imparare a suonare diversi strumenti. Il pianoforte non l’ho mai abbandonato, sebbene avessi smesso da piccolo di prendere lezioni, ma nelle prime band giovanili suonavo la batteria oppure addirittura cantavo. Per riaffermarmi come pianista mi ci è voluto un po’ più di tempo.

Sei un artista poliedrico!
Sì! Ho suonato anche nella banda per tanti anni. In realtà mi sarebbe piaciuto entrare come sassofonista, ma cercavano un batterista per suonare il tamburo, e quindi ho iniziato ad imparare a suonare la batteria.

Ovviamente sempre tutto da autodidatta?
Sì. La batteria ho imparato guardando altri batteristi e prendendo consigli o ascoltando dischi, mentre il sassofono ho iniziato prendendo lezioni e continuando da solo, anche se ora praticamente non lo suono più. Ogni tanto mi capita di mettermi dietro ai piatti con qualche amico, avendo comunque partecipato a band che proponevano pezzi rock inediti o cover.

Praticamente hai spaziato tra vari generi musicali! Alla fine come sei arrivato a scegliere il jazz?
Beh, io non sono uno che ascolta solo jazz, chiaramente una buona percentuale è quello perché è il mio lavoro, ma ascolto un po’ di tutto: classica, rock, cantautorato o progressive. Al jazz ci sono arrivato probabilmente per una innata propensione all’improvvisazione: quando mi mettevo al pianoforte cercavo sempre di improvvisare su un giro di accordi piuttosto che seguire uno spartito.

Nel 2012 nasce l’Andrea Garibaldi Trio insieme a Fabio Di Tanna e Vladimiro Carboni. Come è nata questa avventura?
Dopo aver cominciato a suonare jazz ed a comporre brani miei, ho sentito l’esigenza di fondare un gruppo con il quale poter suonare le mie composizioni. Inoltre si è presentata l’occasione di avere musicisti come loro due, i quali mi sembravano i più idonei a fare quello che volevo fare io.

Avendo suonato da solo per un certo periodo di tempo, hai trovato delle difficoltà inizialmente a stare sul palco con più persone?
Certo, fa parte del gioco. Anche riguardo l’arrangiamento, io scrivo i brani ma ognuno mette del suo, quindi sì, è diverso ma con loro due c’è un feeling particolare ed è per questo che li ho scelti. Quando suoni in gruppo deve esserci sintonia compositiva e ritmica: se qualcuno fa qualcosa, gli altri devono essere in grado di seguirlo. Se sai come lavorano i tuoi musicisti, bene o male sai cosa dove vuole andare e cosa vuole fare, anche se si può incorrere in un automatismo che poi porta sempre nella stessa direzione.

Sei giovane ma puoi già vantare un curriculum di tutto rispetto: hai partecipato a vari concorsi e festival e ti sei esibito insieme alla Rock Opera per il musical Jesus Christ Superstar. In tutte queste esperienze, ce n’è una che ha lasciato il segno più delle altre?
Sicuramente qualche concorso al quale ho partecipato, anche se non ho vinto: il “Chicco Bettinardi” di Piacenza o il “Massimo Urbani” che mi hanno fatto conoscere musicisti che tuttora suonano, come ad esempio Enrico Zanisi o Seby Burgio. Senz’altro anche la Rock Opera la ricordo con piacere: una cosa totalmente diversa dal jazz poiché non c’è spazio per l’improvvisazione, ma giri per i teatri d’Italia, e sicuramente tutte queste esperienze sono servite.

Collaborando anche con molti artisti di grosso calibro, c’è qualcuno che ti ha insegnato qualcosa di particolare?
Lezioni di vita non so, ma sicuramente suonando con gente come Massimo Manzi, un batterista di fama internazionale, oppure Fabrizio Bosso, che ha fatto un disco con Andrea Fascetti, ti rendi conto che se arrivi preparato a fare determinate cose parti con il piede giusto.

Hai qualche progetto futuro?
Sicuramente farò uscire altri dischi con il Trio, avendo altre composizioni da registrare ho materiale per un secondo e terzo disco sia di inediti che di rivisitazioni. Poi ci saranno altre collaborazioni con musicisti come Michela Lombardo, con la quale stiamo lavorando ad un progetto sulle musiche originali di Benny Carter che avrà una realizzazione discografica nel 2016. A settembre/ottobre uscirà il nuovo disco di Luciano Federighi, che oltre ad essere uno scrittore, giornalista e saggista è anche un bravissimo cantante ed autore con cui collaboro già da tre album. Spero poi di portare in giro il più possibile Passaggio al Bosco.

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