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Musica classica contro musica popolare. Rock contro blues. Metal contro pop. Beatles contro Rolling Stones, Oasis contro Blur. Band originali contro cover band. Sono solo alcuni esempi che, praticamente da sempre, hanno caratterizzato la musica. Il paragone, il mettere gli uni contro gli altri pare essere stato un tratto imprescindibile delle sette note. Oggi vale ancora? E, soprattutto, a cosa ha portato? Iniziamo dal secondo quesito. Ha portato ad una estremizzazione e ad una chiusura degli ascoltatori in nome di una fantomatica coerenza che poco ha a che fare con l’ascolto.

Da sempre chi si è detto fedele ad un genere, ha categoricamente rifiutato di approcciarsi ad altro. Se ascolto i Beatles, non amo gli Stones. Ma anche per una semplice questione di vibrazioni, di amore per un certo tipo di melodia. E questo è vero. Diventa meno forte come motivazione nel momento in cui mi rendo conto di attraversare, anche nell’arco della medesima giornata, stati d’animo diversi. Questi richiedono una colonna sonora diversa.

Davvero il genere che ascolto ha la gamma completa di sfumature che ricerco? O forse, in taluni frangenti, avrei voglia di qualcosa di verso? In passato è capitato che in privato si ascoltasse di tutto mentre in ‘pubblico’ si era dei puristi. A che pro? Per non rischiare di deludere l’idea che gli altri potevano avere di noi? Davvero l’opinione altrui ha così tanta importanza da riuscire a condizionare i miei ascolti? Non credo. O, meglio, non dovrebbe essere così.

La chiusura, il talebanismo musicale non porta a nulla di buono. Tutt’altro. Porta a perdere, se non dei grandi artisti, sicuramente delle grandi emozioni. Porta a limitare la crescita e come ascoltatore e come persona. Certo, ci sono i gusti personali, indiscutibili, tuttavia d’altra parte ci sono le emozioni. E queste vincono sul gusto. Un esempio personale. Pur non amando i Deep Purple non posso negare che ne ascolto diversi brani perché mi emozionano, mi trasmettono sensazioni che altre band, sia pur dello stesso genere, non mi danno.

Se non avessi avuto la curiosità, la voglia di capire perché la band di Gillan e soci fosse così osannata, mi sarei perso una grande possibilità. Idem lo potrei dire per mille altri gruppi. Arriviamo quindi alla prima domanda. Ha senso oggi la chiusura? Decisamente no. Per diversi motivi. In primo luogo per le modalità odierne di ascolto della musica. Oggi come oggi poche persone ascoltano un brano per intero. Ancor meno cercano un solo genere.

Ciò che si tenta di trovare nelle sette note, sono emozioni, trasporto, coinvolgimento. Poso conta se a darmele è una band pop e di musica estrema. Ciò che conta è che ci siano delle sensazioni che trasudano dalle casse. Viene da sé che, essendo ogni persone diversa, gli artisti che trasmettono emozioni sono anch’essi differenti. Da qui si articola un altro argomento. Non tutta la musica dà qualcosa. Dal mio punto di vista la prima discriminante in tal senso è il già sentito, il voler assomigliare a qualcun altro. In secondo luogo, o, magari, non in quest’ordine, l’onestà.

La sincerità di scrivere un brano perché lo si sente dentro e non per pubblicare qualcosa. Nel momento in cui pubblico solo perché devo o perché voglio arrivare da qualche parte, ho già perso in partenza. Fortunatamente nell’underverso la maggior parte degli artisti scrive per ‘necessità’ interiore. Il che, da una parte, già mi dà una certa sicurezza di sincerità. Da qui poi si passa alla modalità con la quale ci si esprime. E questa crea la seconda discriminante.

La voce che le persone dovranno sentire, dovrà essere la mia. Nessuno dovrò percepire l’eco di qualcun altro. E dovrebbe essere facile da interiorizzare come concetto. Io non sono un altro. Quindi non posso esprimermi in modo identico. Il risultato sarà qualcosa di falso, artefatto, costruito solo per cercare di piacere agli altri. Questo non potrà che portare all’immediato oblio una volta spento il riproduttore. Sicuramente potrebbe essere una strategia per attirare attenzione.

Di sicuro, però, se io non ho nulla da dire, è una strategia che mi si rivolterà contro. Tutto ciò per dire che, per fortuna, al di là dei gusti e delle barriere, ciò che ancora conta nella musica, e, forse, conta più che mai, è il fattore emotivo. Da qualsiasi direzione possa arrivare. Il lato positivo è che, pare, le nuove generazioni lo abbiano capito. Anzi, lo tengono molto più presente di chi si eleva a paladino della buona, vera, sacrosanta, intoccabile musica. Se invece di limitarci ai preconcetti ci prendessimo la briga di ascoltare per percepire vibrazioni, probabilmente riusciremmo anche a sfuggire meglio alle maglie della mercificazione che approfitta della divisione per volgerla contro di noi.

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