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Nei giorni scorsi, una collega che stimo e ammiro molto per il lavoro che svolge per l’underground, mi ha chiesto se mi servisse un fotografo. Copertura concerti Piemonte e Lombardia. Disposto a lavorare gratis. Come compenso sarebbero stati sufficienti gli accrediti. Senza tentennare, ho rifiutato. Prima di addentrarci nelle spiegazioni del diniego, facciamo una doverosa premessa. Quanto segue non è una critica ad una gentilissima proposta. È semplicemente la spiegazione della mia posizione in merito. Detto ciò, ho risposto di no per diversi motivi. In primo luogo, non potrei pagare l’operatore.

Per quanto minime, le spese ci sono. Ad iniziare dallo spostamento, per proseguire con il tempo necessario per svolgere il servizio, per chiudere con le ore da impiegare successivamente per riguardare le immagini scattate, post produrle ed inviarle. Tutto tempo sottratto ad altro. Ore della risorsa più importante della vita di una persona che non torneranno più. Facendo io lo stesso mestiere, conosco molto bene l’impegno necessario per presentare un buon risultato. E non è poco.

Quindi non mi sembra corretto chiedere del lavoro senza poter riconoscere, per quanto minimo, un compenso. La collega mi ha riposto che si, è vero, però al fotografo questo genere di collaborazioni servono per fare gavetta, per crescere, per farsi notare. Giustissimo. Ma lo stesso la gavetta non può essere gratuita. Magari mal pagata, ma non gratuita. Mi è stato poi spiegato che in un mondo di improvvisati, dove tutti dichiarano di saper fare qualunque cosa, una sorta di selezione serve.

Allora produrre servizi per far conoscere la propria professionalità è necessario. Verissimo. Tuttavia esistono, nel mondo della fotografia, delle raccolte di foto che si chiamano portfolio. In base a quello un fotografo può essere scelto o meno. Il portfolio si crea investendo su se stessi e sulla propria iniziativa, non lavorando gratis per qualcun altro. Senza dimenticare che una volta ceduto il proprio lavoro si possono innescare mille conseguenze per il suo utilizzo. Dato che quasi nessuno scrive nero su bianco gli accordi presi.

Il portfolio nasce andando a fare scatti alla band di amici, al concerto x dove entro perché conosco chi organizza, non grazie agli accrediti assegnati sul nulla. O, anche in questo caso, se volessi rischiare su una persona che sta iniziando e non so esattamente come lavora, la devo pagare. Poco, male, ma lo devo fare. Il servizio non è all’altezza delle aspettative? Il sedicente fotografo non è portato per le foto ai concerti? Non lo chiamo più. Comunque va pagato.

È un po’ come il discorso che spesso si fa: iniziamo a fare questo servizio gratis, poi per gli altri ci accordiamo. No. Iniziamo con il riconoscere l’impegno del tempo di una persona. Poi, se ci sarà un seguito, ci accordiamo per un compenso diverso. A questa motivazione se ne è poi aggiunta una seconda. A TD non servono solo le foto. Servono anche il report scritto, i video, le interviste, i post sui social… tutto lavoro.

Come si fa a chiedere ad una persona di sobbarcarsi questo impegno senza nessun tipo di riscontro economico? Ammettendo che lo si faccia, come si può ‘pretendere’ un certo standard? Viene da sè che se chiedo a mio cugino di farmi le foto al matrimonio, perché è appassionato di fotografia, poi non mi posso lamentare se determinati scatti non li vuol fare o se il suo impegno si limita alla cerimonia o se le foto non vanno bene. Non è il suo mestiere.

Vero, verissimo che ci si deve far conoscere per poter impostare un prezzo. Ma lo si fa sul proprio impegno. Si investe su se stessi. In seconda battuta, il proporsi in maniera gratuita, penalizza anche il lavoro altrui. Perché una webzine, un blog, una testata, un magazine dovrebbe pagare qualcuno se c’è chi il lavoro lo fa gratis e bene? Fino a quando lavora così va bene, nel momento in cui chiede soldi lo scarico e prendo qualcun altro che non mi faccia pagare. Il mondo della fotografia oggi è una vera giungla.

Spesso non vince chi è più bravo, ma chi sa vendersi, o svendersi, meglio. Guardandola da un altro punto di vita. C’è un altro ragazzo che conosco che vuole fare il produttore musicale. Al momento nessuno sa chi sia. Quindi, si offre gratuitamente. Io musicista, perché lo dovrei scegliere? Una persona che non si fa pagare per quello che fa, che affidabilità mi dà? Onestamente la prima cosa che mi verrebbe in mente è che si tratta di qualcuno che non esattamente cosa fare. Che quello non è il suo lavoro.

Il farsi pagare non è strozzinaggio. È evidenziare che si è dei professionisti. O che si sta lavorando per diventarlo a tutti gli effetti. Ancora, perché dover pagare le band per concerto? Del resto lo fanno per passione ed hanno tutti altri impieghi che gli permettono di vivere. Le si deve pagare per il tempo che dedicano a quel concerto. E non è solo la serata in sé. È tutto ciò che li ha portati ad essere su quel palco. La collega mi ha fatto notare come il contesto underground sia fuori da queste logiche.

Nel nostro mondo si deve tenere un basso profilo per poi crescere e potersi far pagare. Del resto non si riesce a vivere di musica. Soprattutto nel nostro mondo. Vero a metà. Dipende sempre dall’impegno, dalle aspettative e dalla progettazione. Senza queste è vero, di musica non si vive. O, meglio, non si vive di dischi venduti. Si può però arrivare a vivere magari di live. Oppure in altro ambito sempre legato al contesto.

Moltissimi musicisti sono tali anche nella vita reale. Insegnano musica, se non hanno aperto loro stessi delle scuole. Fanno i turnisti, collaborano con moltissimi progetti diversi, a prescindere da quello che propongo. È lavoro. È come se un fotografo rifiutasse di fare foto ai matrimoni perché ledono la sua creatività. Può darsi, ma è lavoro. I servizi aziendali, sono lavoro, i book, anche. E via discorrendo. Quindi, se si vuole vivere di musica ci si deve impegnare moltissimo.

E non stiamo parlando di un sogno. Innumerevoli sono le persone che ce la fanno. Ha ragione il cantante degli One Leg Man. Arrivati ad un certo punto si sceglie se far diventare una passione un mestiere oppure no. Ci si rende conto che per andare avanti si deve impegnare più tempo. C’è chi opta per la prima possibilità riuscendoci. Proseguendo. È vero che ci si deve adattare al contesto in cui si agisce, ma non si può svendere il proprio operato.

Piuttosto che lavorare gratis per qualcun altro, lo faccio per me stesso. Almeno sono fuori dagli ingranaggi dello sfruttamento, delle promesse, dei miraggi, dei pagamenti in notorietà. La posizione di TD di cui sopra è questa. Il lavoro si paga. Poco, male, ma si deve pagare. Diversamente meglio agire da soli. Ecco il motivo per cui TD non ha collaboratori. Tempi Dispari non ha l’arroganza o l’ardire di voler cambiare un mondo che ormai ha cronicizzato un certo tipo di atteggiamento.

Un mondo che spesso si crogiola nei propri limiti che in realtà non vuole superare. TD vuole semplicemente essere un’alternativa a tutto ciò. Esiste una sottile linea di confine tra il professionismo e il professionale che va evidenziata. È un concetto espresso diverse volte ma che vale la pena ribadire. Si tratta di consapevolezza. Di scelte.

Si sceglie se oltrepassare quella linea o meno. In tutta serenità, in piena coscienza. Resta sempre la clausula del non lamentarsi dopo se chi ha voluto rischiare ce l’ha fatta. Il fare la differenza non è un colpo di fortuna. È frutto di duro lavoro e impegno a 360°. Sempre pagato. E il dire: non è il mio mestiere, quindi lo faccio gratis, danneggia noi stessi e chi invece quel lavoro lo fa davvero per vivere.

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