Underground

Ovvero, da dove può derivare lo scarso successo del nostro mondo sommerso

Iniziamo con l’intenderci con i termini. Che cosa vuol dire underground? In generale e in particolare in musica. Wikipedia ci dice: Il termine cultura underground (o semplicemente underground) definisce un ampio insieme di pratiche e di identità accomunate dall’intento di porsi in antitesi e/o in alternativa alla cultura di massa o alla cultura popolare.

E questo vale in ogni settore artistico. In antitesi, ossia o contro, ma non siamo più così politicizzati, o in contrapposizione alla cultura dominante. In musica questo si trasforma in un essere alternativa alla musica usa e getta, standardizzata, edulcorata, politicamente corretta, esclusivamente vendibile, che la società vorrebbe.

Chiarito che cos’è l’underground, vediamo da chi è popolato, chi lo rende vivo. Artisti, musicisti, in primis. Ascoltatori in secundis, operatori del settore in ultimo. In questa categoria farei ricadere tutto ciò che gravita attorno alla musica. Ora passiamo all’ultimo aspetto, ma solo in ordine cronologico e non per importanza. La realtà dei fatti. Se ciò che abbiamo sopra detto è vero in teoria, la pratica sembra essere un’altra cosa. E si. Perché pare che l’underground non sia considerato mondo a parte. Un universo di pari dignità artistica di qualsiasi altro settore.

No, l’underground è una supernicchia dove confluiscono tutti quegli artisti che vorrebbero sfondare ma non possono, non riescono o che stanno muovendo i primi passi. L’essere un mondo con un pubblico preparato, accorto, esigente, non viene preso in considerazione. Così come il fatto che molti artisti vengono meglio capiti in questo universo che in altri.

Allo stesso modo non si considera la ricerca degli ascoltatori di emozioni in musica che siano reali e non costruite per vendere. A tal proposito, è considerato un mondo ‘minore’ perché non fa girare tutti soldi che fanno girare invece gli artisti maggiori. Vero, verissimo. Tuttavia vanno fatte delle precisazioni.

Non è vero che nell’underground non girano soldi. Facciamo un po’ i conti. Innanzitutto, nasce una band o un solista. Possono girare soldi per le sale prova, dovrebbero girare per i creatori dei software per l’home recording, che dovrebbe essere originali, girano per i negozi di musica, reali o virtuali che siano. È li che chi suona acquista il proprio mezzo espressivo e ciò che serve alla sua manutenzione. Girano i soldi per i produttori, per le sale di incisione. Autoproduzione non significa necessariamente ‘abbiamo registrato tutto in casa’.

Quanto, abbiamo registrato tutto in autonomia. Abbiamo trovato noi il produttore, la sala di incisione, il fonico. Poi, girano i soldi per i locali che danno la possibilità alle band e ai singoli di potersi esprimere. Per chi organizza concerti. Per chi li dovrebbe promuovere. Certo, non si diventa ricchi, ma qualcosina entra. La differenza con i mondi emersi, non è qui, quindi. Sarà allora nel fatto che molti artisti non riescono a vivere solo di musica, intesa come registrazione e attività live?

Che tanti hanno un altro lavoro per riuscire a stare a galla? Non credo. Quanti artisti mainstream hanno ‘differenziato’ la propria attività? Sono quindi artisti underground? O la differenza sta nell’essere o meno conosciuti? Gli Anvil, band metal, o i Twisted Sisters, erano molto conosciuti negli anni ’80, ma non sono mai usciti dall’underground. Perché? Perché non è la fama che toglie di dosso l’identità che un artista si sente. Quindi perché rimanere underground? Perché ci si sente liberi. Perché non ci sono compromessi. Perché viene rispettato il concetto che espresse Frank Zappa in una intervista. Disse che

la musica non ha bisogno di giovani che sappiano cosa vuole il mercato. Ha bisogno di persone che rischiano. Chi produce, lo fa credendo in un progetto.

Non c’è mai la sicurezza della riuscita. C’è l’audacia del rischio. Deve esserci se no si diventa carne da macello.

Dal mio punto di vista la differenza con il mainstream l’underground la crea da sé. La fa nascere ritenendosi a priori un mondo approssimativo, poco allettante, non professionale, fatto di volontariato e non di lavoro vero. Un universo dove non esiste una progettazione, un punto di arrivo, uno sforzo complessivo e comune per fa conoscere le proprie perle. Come se così fosse si potesse snaturare l’idea stessa di underground. Esistono degli esempi che così non è.

E ne prendiamo uno altisonante: I Tool. Loro nonostante la fama, restano coerenti con se stessi, una band underground. Tanto che si sono autoprodotti l’ultimo disco. Fanno la musica che vogliono, senza compromessi. Piaccia o meno non è un loro problema. Il non avere le idee chiare non aiuta il nostro mondo sotterraneo. Anzi, lo sfalda, lo distrugge in piccolezze davvero poco professionali. L’eccessiva frammentazione della scena, l’autoreferenzialità, il talebanesimo. Tutto aiuta a non riuscire a raggiungere lo scopo: far conoscere la scena, i gruppi, gli artisti.

Fino a quando ce la si canta e ce la si suona da soli, senza capire che volenti o meno si fa parte di un contesto più ampio, non si arriverà da nessuna parte. Fino a quando non si capirà che le band devono essere fatte conoscere fuori da certi confini, non si andrà da nessuna parte.

Fino a quando si penserà di mantenere e non ampliare il pubblico, non si andrà da nessuna parte. Così come non ci si muoverà fino a quando si crederà di riuscire a fare conoscere gli artisti solo con i concerti, con le interviste, con le recensioni, senza cercare di andare ‘oltre confine’.

Non si andrà mai da nessuna parte fino a quando l’underground non farà un sano esame di coscienza rendendosi conto di autoflagellarsi, di gongolare nella sconfitta, nella chiusura onanistica e auto soddisfacente. Fino a quando non prenderà atto di essere davvero un mondo a parte con una dignità propria che nessuno deve riconoscergli per renderla vera.

E il problema non sono gli artisti. Non è il pubblico, non sono le etichette. Non sono i locali o i promoter. Il problema sono tutte quelle realtà miopi che ritengono di essere utili alla causa con operazioni autoreferenziali, chiuse in una cerchia ristretta di ‘appassionati’ che poco porta al contesto generale. Ecco perché il vero nemico dell’underground è se stesso. Perché Il sentirsi inadatti ad un mondo più ampio, che effettivamente darebbe più possibilità a tutti, non è un fatto tangibile, è una forma mentis.

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