Intervista raccolta da Carmine Rubicco

Un premio rivolto e dedicato ai giovani musicisti emergenti con l’obiettivo di individuare e valorizzare i progetti musicali originali nell’ambito del jazz e della musica improvvisata. Questo il Il Maletto Prize inserito all’interno di Ah-Um Milano jazz Festival, giunto quest’anno alla tredicesima edizione. Musica ma non solo. Negli obiettivi degli organizzatori c’è la valorizzazione del jazz inteso come modalità espressiva tout court. Attorno al concorso decine di iniziative collaterali riguardanti arti visive e forme culturali diverse. In questa intervista a Tempi Dispari Antonio Ribatti, uno degli organizzatori e membro del Collettivo Jam, associazione promotrice della manifestazione, spiega come e perché è nato il festival e come il jazz sia non solo musica ma “innanzitutto un modo di intendere l’esistenza in ogni suo aspetto“.

Domanda di rito: da dove nasce il festival, quest’anno alla sua XIII edizione? Un caso, una scelta o un’esigenza?

Una scelta motivata da un’esigenza! Abbiamo tentato di colmare il vuoto d’iniziative dedicate alla musica creativa verificatosi in Milano, in modo particolarmente evidente tra il 1995 e il 2000. In quegli anni diversi storici jazz club chiusero i battenti, così come furono annullate diverse rassegne. Botti, Mangialajo, Tacchini ed io fondammo Collettivo Jam, proprio al fine di proporre una soluzione alternativa. La vicenda Ah-Um può essere suddivisa in quattro fasi distinte: Il Collettivo Jam e l’invenzione del Festival al Teatro Edi, dal 2000 al 2005; Verso il Festival multidisciplinare al Teatro dell’Arte, il 2007 e il 2008; Il Festival territoriale in Quartiere Isola, dal 2010 al 2015; oltre ad una fase ancora da aprire ma alla quale già stiamo ragionando… Ah-Um futuro prossimo dal Quartiere Isola all’Europa.

Negli intenti della manifestazione si legge non solo musica ma eventi collaterali legati anche ad altre arti come fotografia, cinema, letteratura. Jazz quindi inteso in senso lato come necessità espressiva, stile di vita?

Certo! Il jazz per me è innanzitutto un modo di intendere l’esistenza in ogni suo aspetto. Il jazz è, ormai, una forma d’arte suonata e apprezzata in ogni parte del mondo, oltre ad essere un mezzo di comunicazione di straordinaria portata, che trascende le differenze di razza, religione, etnia o nazionalità. Appartiene a tutti gli individui ed è un formidabile strumento di dialogo interculturale, di unificazione e di convivenza pacifica. Mi piace affermare quanto detto con ogni linguaggio a disposizione, con l’arte, il cinema, la letteratura, la fotografia, la poesia oltre che con la musica stessa. Per questo motivo Ah-Um non è solo una rassegna di concerti: è anche video, mostre, presentazioni di libri, occasioni d’incontro, ecc. Ho avuto una formazione varia e il jazz è sempre stato il collante che mi ha fatto innamorare di tutto, ha dato un senso forte alla mia vita, esaltandone ogni aspetto.

Come è stata accolta la proposta di coinvolgimento da parte delle sedi non istituzionali o non esattamente atte alla fruizione della musica?

In maniera eccellente! La musica, come avevo intuito portando il festival all’Isola, ha agito come valorizzatore di luoghi, svelandone qualità e caratteristiche inaspettate, sconosciute spesso agli stessi cittadini. Abbiamo portato musica in luoghi poco noti al grande pubblico ma di grande valore simbolico, luoghi storici come i Chiostri di Santa Maria alla Fontana o la Fonderia Napoleonica Eugenia e, in realtà molto attive e affascinanti come Zona K o il Laboratorio Cagliani. Ah-Um offre così a tutti la possibilità da una parte di comprendere i molti orientamenti stilistici del jazz e, dall’altra svelare il pregio di un territorio di grande valore e complessità, dal punto di vista sia architettonico che sociale.

Quanto è difficile suonare e “essere jazz” in Italia?

Se la situazione della musica in generale è molto difficile in Italia, quella del jazz è ancora più complessa. Le istituzioni prima di tutte, come hanno dimostrato più volte, non hanno un quadro del reale valore culturale, sociale ed economico di questa musica e delle sue potenzialità di sviluppo. Il tutto sopravvive grazie al lavoro, spesso improvvisato, di migliaia di appassionati che si fanno carico di produrre e promuovere, a titolo spesso volontario o bassissimo reddito, progetti originali di altissimo valore per la collettività. Eppure alcuni nomi del jazz italiano ormai sono famosi in ogni parte del mondo, ma sono solo la punta di un iceberg che contempla straordinari musicisti che fanno un lavoro spesso totalmente sconosciuto ai più. È un sistema che andrebbe completamente rifondato. Bisognerebbe ripartire da zero tutti, magari intorno a delle linee programmatiche condivise. E quando dico tutti intendo musicisti e produttori, etichette discografiche e ministeri, direttori artistici e scuole, promoter e gestori di locali, e così via. Quando penso alle difficoltà che ho sempre affrontato per cercare di far vivere Ah-Um e altre numerose iniziative alle quali ho lavorato penso ad una frase di Daniel Baremboim che dice: “Se provo a parlare della musica, è perché l’impossibile mi ha sempre attratto più del difficile”.

Il Maletto Prize è il premio rivolto ai musicisti emergenti. Un premio dedicato è un atto d’amore e verso Gian Mario Maletto da cui prende il nome e verso i musicisti che vi prenderanno parte. La musica è ancora passione? E come è cambiato il mondo del jazz dalla nascita della vostra associazione?

Vista la fatica che richiede vivere di musica direi che la passione è una componente imprescindibile! Spesso il mondo del jazz innesca dei meccanismi di autoconservazione che non fanno altro che contraddire l’essenza del jazz che è quella di essere una musica libera, tendenzialmente priva di schemi e in continua evoluzione. Questo è per dire che spesso è facile cedere al rimpianto dei tempi andati, ricordando momenti gloriosi e gesta leggendarie. A me piace pensare che le cose migliori possano ancora venire. Il Maletto Prize è un progetto che condivido con Gianni Barone, owner della NAU Records. Il premio è dedicato a Gian Mario Maletto, prestigiosa firma del giornalismo jazz italiano dagli anni cinquanta, che entrambi abbiamo sempre stimato professionalmente e umanamente. Un premio vero e proprio in quanto al vincitore spetterà un contratto discografico e di rappresentanza artistica con la NAU Records. Insomma una sorta d’introduzione alla professione della musica; Gianni ed io crediamo fermamente che una società che non crea occasioni per lo sviluppo del talento delle nuove generazioni sia una società che non ha speranza.

Corsi e ricorsi. Milano un tempo era ricca di eventi e musicisti jazz. Oggi molte manifestazioni si sono perse, vale anche per i musicisti o si è tornati in un prolifico quanto semisconosciuto underground?

Credo che il mondo del jazz sia più attivo che mai: i luoghi in cui si suona sono molto più numerosi che in passato e, se negli anni 80 quasi tutti club erano in zona Navigli o in Brera, oggi i locali sono dislocati in modo capillare in tutta Milano e addirittura in provincia. In secondo luogo i musicisti sono molti di più che in passato e, spesso, tecnicamente molto più preparati che grazie alle numerosissime scuole presenti in tutta la città. Forse quel che manca è una propensione alla ricerca che dovrebbe essere l’input principale di chi decide di fare musica, ovvero manca la voglia di andare oltre il consueto. Manca anche una visone collettiva del fare le cose: c’è in grande individualismo che spesso si tramuta nel disinteresse e nella mancanza di curiosità. Oggi ci sono molte realtà che si occupano di proporre musica creativa, improvvisata e jazz, ognuna costituisce una sua nicchia che rischia di diventare autoreferenziale se riuscissimo a coordinarci potremmo diventare una vera forza innovativa e propositiva.

Milano è jazz, inteso come stile di vita?

Si io ritengo che Milano sia assolutamente jazz… se volessimo leggere la questione dal punto di vista storico, il primo locale di jazz in Italia aprì a Milano nel 1919, si chiamava “Mirador’s” ed era in Piazza Sempione. Con il locale nacque anche la prima jazz band italiana, anch’essa per iniziativa di Arturo Agazzi, in arte Mirador, un gestore di night club che rientrando da Londra portò con sé una notevole collezione di spartiti di fox trot e una batteria, strumento che dovette sembrare una specie di astronave aliena ai nostri orchestrali! Sto già pensando ad un grande evento proprio per celebrare un secolo di jazz a Milano, nel 2019!

I giovani e il jazz. Quanto è difficile far avvicinare le nuove generazioni, bombardate da un vuoto musicale, ad una musica che di per sé non ha confini?

La situazione è quantomeno paradossale: in tempi recenti c’è stato un proliferare di scuole di musica, si può studiare pressoché dovunque in Italia, Conservatori, Scuole Civiche, associazioni, si possono prendere lezioni private studiare musica d’insieme. Personalmente, credo che ci sia tutt’altro che un vuoto musicale, piuttosto è il contrario. Il punto è come dicevi che la musica è sempre più senza confini: sconfinati sono i generi musicali ormai e ciascuno con le proprie sfumature e, inoltre, rispetto al passato possiamo ascoltare musica in molti più formati. Ciò ha cambiato il modo dei giovani anche di approcciare alla musica dal vivo e ho come l’impressione che molti cedano alla comodità offerta dai nuovi media: hai tutta la musica che vuoi direttamente a casa, a basso costo o gratuita. A mio avviso è una musica più subita che scelta anche se sembra il contrario. Tutti i frequentatori di musica live sanno che andare a vedere un concerto corrisponde a fare delle scelte ben determinate, si sceglie il tipo di spettacolo, l’artista, la tipologia del biglietto, la fascia di prezzo, come pagarlo, il mezzo con il quale raggiungere il concerto, l’ora e il luogo di partenza, come vestirsi, con chi condividere un’esperienza che è ogni volta irripetibile. E questo per molti è un’enorme fatica, anche se a mio avviso è uno dei modi per godere della propria libertà!

Domanda Tempi Dispari: se fosse lei ad intervistare chi le piacerebbe intervistare e perché?

Se fossi io ad intervistare mi dedicherei ad un indagine sulle nuove generazioni di appassionati di musica. Intervisterei i giovani nel tentativo di comprendere quali sono i loro obiettivi e cosa si aspettano dalla musica, per quale motivo si avvicinano ad un mondo così complesso e complicato, quali occasioni pensano che dovrebbero avere per poter mettere in luce il loro talento.

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