Claudio Orfei

Il suo disco di esordio, My Wonderland, è di recente pubblicazione. Un’opera imponente, coraggiosa, libera. Un concept che spazia tra più generi musicali offrendo un vero tour in un mondo di favola e nell’animo umano. Un disco mastodontico per un solo uomo. In questa Intervista l’autore, Claudio Orfei, racconta come è nato il progetto, i diversi gradi di lettura, il messaggio principale che vuol trasmettere. Soprattutto parla di ciò che desidera per domani. Una chiacchierata davvero interessante. Tutta da leggere.

Una presentazione per chi non ti conosce
Claudio Orfei, classe 1992.
Sono un cantautore, giovane compositore, serenamente “un diverso cresciuto bene”, nato
nella provincia di Roma.
La mia formazione musicale inizia quando avevo 12 anni, nelle scuole della provincia,
passando poi per il Conservatorio, poi l’Erasmus a Manchester, poi l’Università e l’Officina
Pasolini (classe canzone).
Segno zodiacale Vergine, ascendente sconosciuto, vivo di grandi passioni organizzate, che mi
hanno portato alla realizzazione del mio primo album “My Wonderland”.

La prima domanda è: come hai fatto? Come sei riuscito a scrivere un disco così intenso e
complesso.

Basta organizzarsi…
Ovviamente questa complessità va gestita, va costruita nel tempo, servono strumenti adatti
che sono il frutto dell’introspezione, dello studio, della condivisione, della ricerca, della
tecnica, degli imprevisti della vita e della passione.


Occorre essere liberi, cosa che dovrebbe essere scontata, ma non è sempre così.
“My Wonderland” è un progetto autoprodotto, in cui mi sono preso la responsabilità di ogni
singola decisione, pesando note e parole, scegliendo i preziosi musicisti e collaboratori.
In questo disco sono racchiusi molti desideri realizzati, tra cui quello di riunire le preziose
ospiti che mi accompagnano in questo viaggio.


Pubblicare questo concept album come “indipendente” è stata una scelta netta, a cui sono
arrivato solo nel momento in cui ho capito chi sarei voluto essere nella vita.
Essere il produttore di me stesso mi ha reso libero, pagando però il prezzo del coraggio,
dell’ossessione, della paura e dell’attesa. Tuttavia questo mi ha consentito di evitare le mode
lontane dal mio sentire, per soffermarmi e perseguire solo quella che per me è la strada della
Bellezza.

Perché la canzone tradizionale napoletana?
Parliamo di “Pace sarrà”, una serenata popolare in napoletano.
Questo brano vuole essere il prequel di una delle canzoni più importanti della tradizione
napoletana “Reginella”.
Ho scelto questa forma perché siamo davanti a uno dei mezzi espressivi più potenti che
hanno segnato il destino della canzone italiana nel mondo.

Vuole essere un omaggio alla nostra canzone d’autore, riportando alla luce anche quello che potrebbe suonare “vecchio” per qualcuno, per me, invece, meravigliosamente antico.
È come indossare la collana di perle della nonna oppure la giacca in principe di Galles del
nonno, sono gesti d’amore, in questo caso verso la musica e la nostra tradizione.

Nella recensione il disco è stato accostato alla colonna sonora per un musical. Ti ci ritrovi?
È un’idea a cui ha pensato?

Ti ringrazio per aver portato alla luce anche questo aspetto del mio lavoro.
I musical, nella loro accezione più tradizionale, come anche l’opera e le VHS Disney, mi
hanno sempre affascinato e condizionato nella mia formazione e scrittura, indicandomi
forme, generi e mezzi espressivi da adottare.


Sicuramente “My Wonderland” si presta a questo mondo: deriva da una visione in cui si
intrecciano parole, musica, movimento, narratività, immagine, personaggi e storie. Ogni
canzone è autonoma ma, se viene letta in relazione alle altre che compongono il concept
album, crea un percorso, un viaggio intorno al mondo e dentro l’essere umano, in cui il
protagonista è il Cappellaio Matto, che in realtà è una semplice maschera dietro la quale
potersi riconoscere.


Per quanto l’idea dell’allestimento per i live sia già di carattere teatrale, trasformare il disco in
un vero e proprio musical sarebbe il passa successivo che ovviamente richiederebbe, però,
energie maggiori rispetto a quelle già vestite nell’auto produzione del disco stesso. È un altro
sogno da realizzare.

Cosa vuoi trasmettere con My wonderland?
Come succede spesso nel mondo della musica e dell’arte in genere, anche “My Wonderland”
contiene in sé diversi livelli di significazione: rispetto alla storia raccontata, alle tematiche
sociali e personali di carattere universale proposte e, non ultimo, il valore meta-musicale,
rispetto a quello che è divenuta oggi la musica nei suoi vari processi produttivi.


Sicuramente come primo passo c’è il significato “manifesto” dell’opera, ossia il viaggio
intorno al mondo, le varie storie che si intrecciano attraverso i vari riferimenti fiabeschi, i
generi musicali affrontati, il suono, le voci, gli arrangiamenti e la narrazione in generale,
attraverso musica e parole.


Il secondo significato che voglio trasmettere è quello “latente”, è il contenuto dietro la favola,
è il valore semantico dell’opera (se così si può definire questo mio lavoro), in cui ho voluto
riportare l’attenzione su tematiche sociali, per me rilevanti, ossia: il supporto delle
minoranze, l’incontro tra culture, lo schieramento contro ogni forma di discriminazione e
l’accettazione di ogni tipo di diversità che ci tiene distanti come popoli ed esseri umani.


Terzo ed ultimo punto è quello meta-musicale, su cui non vorrei dilungarmi molto perché
vorrei che fosse il mio lavoro a parlare per me. L’unica cosa che mi sento di dire è che, nel
bene e nel male, esiste anche altro, oltre alle mode.

Che cosa è venuto a mancare all’animo umano oggi e di che cosa avrebbe di nuovo o più
bisogno?

Del tempo per guardare dentro se stessi e dentro le cose.

L’aspetto più complesso della fase compositiva?
In quanto a complessità nei miei processi compositivi, potrei scrivere per ore.
Diffido sempre da quelli che dicono che per scrivere una canzone ci hanno messo 5 minuti…
Ogni mia singola canzone ha richiesto mesi prima di vedere la luce, sono state lunghe
gestazioni.
Ciascuna canzone ha vissuto la sua fase più complessa: dalla ricerca della frase giusta, a
quella della nota più colorata, dall’arrangiamento più articolato, fino alla ricerca dell’ospite
più adatta a raccontare quella storia.


Forse, provando a risponderti in modo univoco però, parlerei dei testi che sono sempre, per
me, la parte più difficile da chiudere, soprattutto se consideriamo il lungo lavoro di
adattamento nelle 8 lingue, realizzato in compagnia di amici madrelingua.


La mia fortuna è stata, nonostante le varie complessità di ogni singolo caso, avere le idee
chiare su dove andare e cosa raccontare, il resto è solo una questione di organizzazione.
Sono le idee, la passione e il lavoro che fanno la differenza tra complesso e complicato.

Riascoltando il disco hai pensato che il risultato era esattamente quello che volevi,
superiore alle aspettative o c’è qualcosa che avresti cambiato?

In tutta onestà, al momento non ricordo quale fosse di preciso il risultato sonoro desiderato, è
stato un lungo processo di costruzione. Sicuramente posso dirti che oggi sono pienamente
soddisfatto del risultato e, in qualche momento, sono addirittura sorpreso di quello che è
venuto fuori.

Tutti i miei desideri sono stati realizzati grazie al lavoro fatto insieme ai preziosi
collaboratori scelti per questo progetto e anche grazie a un po’ di ossessione che mi ha
permesso di portare a casa questo risultato.
Ci sono cose che pensavo impossibili e invece sono successe, come radunare le meravigliose
artiste che mi accompagnano in questo viaggio, e altre che neanche immaginavo e che poi
sono capitate, grazie a fortunati incontri, come quello con Claudio Martinez che ha realizzato
il comparto visivo.

Ci sono canzoni che sono state escluse?
Si, sicuramente due, forse tre… Ma nulla è perduto, il viaggio è appena iniziato.

Dal tuo disco quello emerge è la forza della musica. Secondo te, la musica, può essere
definita la più universale delle arti? Soprattutto adesso con l’avvento di internet?

Il termine universale può avere diverse accezioni, anche legate alla musica.
In alcune di queste mi trovi d’accordo, in altre meno.
Sicuramente il bisogno di fare musica è universale, nello spazio e nel tempo; i mezzi
espressivi e i codici possono cambiare ma il valore comunicativo resta.


Inoltre la musica ha sempre cercato relazione con altre forme di espressione, con la parola,
con il movimento con la luce… A volte in relazioni cooperative e simbiotiche e in altri
momenti rivendicando la propria autonomia.
Non so se la musica possa essere la più universale tra le arti: forse direi di si, peccando però
di presunzione, facendo questo nella vita… In realtà non ne sono neanche così sicuro.
Credo che oggi, con internet, la musica sia ovunque, in ogni sua espressione, è tutto li, tutto
più democratico, fintamente democratico, ed è tutto più superficiale, ampiamente superficiale.
Di certo, però, non direi universale.

Il mondo ha bisogno di più musica?
“No, assolutamente e inequivocabilmente no!” (Spero che gli appassionati di Harry Potter
possano cogliere la citazione).
No, credo che oggi il mondo abbia bisogno di fari, di candele, di poesia e magia, di lenti di
ingrandimento e telescopi per mettere a fuoco la Bellezza, costretta a vivere sotto la
superficie.
Poi possiamo parlare anche di musica.

Ieri l’idea, oggi il disco… e domani?
Domani, come oggi, altre 1000 idee e altri 100 dischi, viaggi, bella musica, incontri… Si
spera!

Una domanda che non ti hanno mai posto ma ti piacerebbe ti fosse rivolta
Nella vita una domanda travestita da proposta di lavoro dalla Disney non sarebbe male.
Per un’intervista mi piacerebbe rispondere a domande surreali, per viaggiare con la fantasia…
Non si sa mai nascano nuove idee per nuove canzoni.

Se fossi tu ad intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del
tempo, chi intervisteresti e cosa gli chiederesti?

La lista di personaggi è infinita, da Bach ai Beatles, da Mozart a Tenco, dal Signor
Neanderthal a Battisti.
Chiederei sicuramente il motivo per cui lo fanno, per capire cosa li spinge nel creare, e poi
ruberei qualche consiglio.


Ma se proprio devo farti un nome, uno solo, per chiudere questa intervista con un ulteriore
tocco di egocentrismo, utilizzerei questa macchina del tempo per intervistare Claudio Orfei,
me stesso, quando avevo 12 anni e quando ne avrò 80, sperando di ritrovare la stessa
passione dentro la mia voce.

Un saluto e una raccomandazione a chi ti legge
Grazie per aver sopportato i miei sproloqui e le mie metafore da giovane romantico.
Vi consiglio di ascoltare il nuovo lavoro di Claudio Orfei… E vi raccomando di seguirlo nei
concerti che inizieranno da marzo!!
Mi raccomando, siate gentili con il prossimo, dite sempre grazie al bar e lavatevi le mani
prima di mangiare!

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