Testo a cura di Carmine Rubicco

La notizia sta rimbalzando come una pallina da ping pong per tutta la rete. La vicenda Facemusik sta alzando un polverone inatteso e sconvolgente. Talmente sconvolgente che alcuni dopo la pubblicazione del famigerato tariffario hanno interrotto la collaborazione con la testata.

Ma andiamo con ordine. I fatti.

Sono state pubblicate diverse video recensioni di album prodotte da artisti noti. Fin qui nulla di scandaloso. Lo scandalo è esploso quando qualcuno ha reso pubblico anche il tariffario cui le band recensite si sono dovute attenere per veder criticato in maniera costruttiva il proprio disco.

Detto ciò diventa quasi imprescindibile dire la propria sulla vicenda. E forse eticamente lo è. Si perché di etica si tratta. In un momento e in un mestiere dove questo termine pare aver perso tutta la sua forza, forse è il caso di ritirarlo in ballo. Già il giornalismo di inchiesta in Italia quasi non esiste, perché aggravare la situazione?

Iniziamo col dire che non è in discussione il pagare gli artisti per le recensioni, ma il fatto stesso di farsi pagare per recensire un disco. Che poi a recensirlo sia tizio caio o sempronio è del tutto irrilevante. Dall’altra parte chi dà la certezza che le idee espresse dall’artista siano esattamente le sue e non quelle di un ghost writer? Chi assicura che tizio o caio abbiano davvero ascoltato il tal disco e non si stiano semplicemente limitando a leggere cose scritte da un altro?

Come spesso capita in Italia, si tratta di un falso scandalo. Ossia, purtroppo, è una pratica già diffusa da tempo.

Far pagare una recensione perché poi? Qual è il motivo? Il giornalista in questione sta facendo semplicemente il proprio mestiere recensendo un disco. È come se un negoziante di vernici facesse pagare il consiglio su una tintura. È la stessa cosa. Il negoziante potrebbe addurre a giustificazione il fatto che il cliente stia usufruendo della preparazione altrui e che quindi deve pagare.

Ancora, cosa toglie un gruppo ad un recensore? Tempo? Opinioni? Preparazione, tutta da verificare? O semplicemente la band non sta facendo altro che offrire del lavoro al giornalista in questione? Sarebbe come se un reporter andasse dagli organizzatori di una manifestazione e gli dicesse: io sono qui, se volete che scriva e scatti foto da pubblicare, pagatemi. Giustamente gli organizzatori potrebbero ribattere, “ma come, non sei qui a lavorare? Non c’è già qualcuno che ti paga o dovrebbe pagarti per quello che stai facendo?”.

E qui il nocciolo della questione. “Ma io non guadagno nulla da questo lavoro, in qualche maniera dovrò pur tirar su dei soldi”, la frase principe in determinate situazioni. Verissimo, innegabile, sacrosanto. Ma perché a pagare devono essere le band o gli organizzatori? Mica ha ordinato il medico di fare il redattore.

E poi perché farsi pagare solo le recensioni e non anche la pubblicazione dei comunicati stampa, le interviste, le notizie degli eventi? Sono tutti “servizi” su cui poter lucrare. Del resto nella massa qualcuno che accetta lo si trova sempre.

O magari il farsi pagare per certe cose in realtà è meno professionale di altro? Se io pago una recensione, un servizio, in quanto acquirente mi aspetto di leggere qualcosa di positivo a prescindere dalla validità o meno del mio prodotto. Ho pagato, quindi scrivi quello che dico e non quello che vuoi. E anche in questo caso il discorso non farebbe una piega. Io pago un muratore e voglio che la casa la costruisca come dico io. Che poi possa crollare dopo due giorni sono affari miei, intanto ho pagato e voglio quello che chiedo. Sarà magari per questo che spesse volte le classifiche non rispecchiano l’effettiva validità di un artista o l’esatto andamento delle vendite.

Questa vicenda non fa altro che sottolineare la vittoria di chi vuole una guerra tra poveri, una lotta tra chi cerca di fare cultura, essere autonomo e fare un mestiere creativo in un paese dove il libero pensiero viene aborrito come la peste, soffocato come un contagio pericolosissimo e innaturale. È lo stesso concetto del pay to play, dei tariffari per i festival, dei gestori che chiedono quanta gente porti e così via. Non sono loro i “colpevoli” di una situazione macroscopicamente degenerata. I colpevoli, se se ne vogliono trovare, sono tutti coloro i quali non vogliono persone libere, libere di pensare, libere di esprimere opinioni, libere di costruirsi un futuro che esuli dallo schiavismo e dalla vendita del proprio tempo al miglior offerente.

In ultima analisi forse non si dovrebbe chiedere a chi dà vitalità ad un giornale di pagare, ma sarebbe più consono chiederlo a chi dovrebbe dare la possibilità a quel giornale di crescere e sopravvivere. Giornale ma anche progetto di qualsiasi genere teso a fornire servizi ai cittadini ed alla popolazione. Pubblicare notizie dovrebbe avere questo come scopo. Ma in un paese dove professionalità non esiste e chi organizza concerti agevola non chi fa un buon lavoro ma solo chi è amico o ritiene possa far vendere più biglietti non si può pretendere così tanto.

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