arsenale

La definizione di indie ha infinite sfaccettature. Indie può essere tutto e niente. Certo, coordinate stilistiche per rientrare nel genere ce ne sono. Ma poi ogni band, fortunatamente, aggiunge influenze e tocchi personali che la fanno deviare. Nel novero di gruppi di questo tipo rientrano i marchigiani Arsenale con il loro Ore di buio. Assodate le direttive principali, il resto è un melting pot di influenze. Post punk, noise, rock, cantautorato. Tutto miscelato da una perizia tecnica, una fantasia, una consapevolezza davvero encomiabili.

Tempi dispari, composti, alternanza di pieno e vuoto, ingressi di strumenti a fiato quando meno te lo aspetti. Sono solo alcune delle caratteristiche di questo lavoro. Prima di addentrarci tra i solchi del disco una nota al decisivo, incisivo, caratterizzante lavoro della batteria. Non c’è canzone in cui Leonardo Rocchetti non dia il meglio di sé con accompagnamenti personali, mai banali men che meno scontati. In tal senso ascolti Scogli. Credo che un batterista possa essere un brano da ascoltare e riascoltare mille volte. Per noi comuni mortali non resta che apprezzare la canzone nel suo insieme.

Il disco si avvia con Fabbrica. Intro post punk. Un unica nota di basso spezzata crea la base su cui poggia il testo, narrato più che cantato. La batteria si limita ad accompagnare su charleston chiuso con colpi singoli. Poi improvvisamente un passaggio complesso. Davvero un fulmine a ciel sereno. Breve ma intenso. Allo stesso modo entra la chitarra con un crunch leggero ed effettato. Si torna all’inizio. Questa volta la sei corde fa sentire la proprio presenza più spesso per poi aprirsi nel ritornello elettrico.

Special su nota iterante che introduce un a solo. Anch’esso atipico. Il rientro è su un basso martellante. Batteria leggera sui piatti. Torna la chitarra su un unico accordo con una piccola variazione a metà della battuta. Condizione che porta alla chiusura. Si prosegue con Salnitro. Basso distorto conduce il riff portante. La chitarra entra in controtempo con un solo accordo. Il ritmo rallenta. Accordi lunghi, semi distorti. Il basse è iterante, la voce recitata più che melodica. Neppure sul ritornello apre alla melodia. Si torna al basso iterante. Batteria in sedicesimi sul charleston chiuso e con colpi di cassa.

Il brano di per sé è minimal. Pochi accordi, ma mille cambi. Come quello che avviene dopo il secondo ritornello. Apertura strumentale. Note lunghe, languide, elettriche come dei fulmini accompagnano al finale. La seguente Tarkovskji è un altro tassello interessante. Entra subito in ritmica con la chitarra e il basso. Molto ben congeniato lo scambio di nota tra i due. A sorprendere è la batteria. Non c’è un vero accompagnamento. Almeno fino al cambio del refrain.

Qui la canzone si fa quasi pop. Nuovo cambio. Uno strumento a fiato caratterizza il passaggio. I passaggi che si susseguono virano tra lo sperimentale e il funkpop. Per la prima volta si intravede un’apertura melodica eseguita dalla voce. Il brano si intensifica. Ritmo pieno. Torna la tromba su una base elettrica quasi garage. Il brano termina sfumando. La su citata Scogli è un pezzo quasi da studiare. Tempi non solo dispari e composti ma strutturati in poliritmia. Voce narrante. Non si cambia registro neppure sullo special con la tromba. Si muta subito dopo grazie al basso distorto che diventa protagonista.

La batteria abbandona i tamburi per dedicarsi al bordo del rullante. È l’introduzione al ritornello e del successivo a solo di tromba. La sezione ritmica pare non riuscire a fermarsi neppure un attimo. In crescendo si arriva alla chiusura. Intrigante la seguente Veglia. L’intro ha come base dei colpi più che un tappeto melodico. Improvvisamente il brano impenna. Aumenta la velocità, si fa incalzante. Un breve stralcio per tornale sulle coordinate iniziali. Struttura che si ripete sostituendo il ritornello con un intermezzo strumentale. La canzone termina come era iniziata.

Un arpeggio crunch, rumoroso e caustico, introduce Gabbiani. Le direttive in questo caso sono più standardizzate. La voce non canta, racconta. Basso e batteria disegnano architetture ritmiche intriganti e mai dome. La chitarra si lancia in un a solo di genere. Le parti si alternano. Gli interventi della chitarra sono dissonanti, fastidiosi come il testo. Verso i ¾ si cambia radicalmente. L’ombra dei Pink Floyd si allunga. Diventa concreta. Tempi lenti, tastiere, basso minimale, chitarra che offre ricami variegati.

Mille anni è una canzone più elettrica, quasi garage. Il finale è un crescendo di intensità che rallenta per poi scomparire. Michele segue una strada più conosciuta. Più che apprezzabile l’alterarsi di pieno vuoto così come il perenne sali scendi a livello emotivo. Chiude il disco Specchio. Una nuova summa di quelle che sono le capacità dei nostri anche a livello di songwriting. Il brano è un perenne alternarsi di atmosfere con una batteria inarrestabile. All’interno c’è lo spazio per una transizione quasi jazzata. A metà si rallenta notevolmente. Entra la tromba. Batteria minimale solo sui piatti. Chitarra assente. Basso iterante. L’ultimo passaggio spiazza e debilita. Improvvisa esplosione elettrica con tanto di feedback. Tutto in un crescendo anche di velocità.

Concludendo. Sono nella medesima difficoltà di altri dischi. Come si fa a trarre le somme di un lavoro che al proprio interno porta davvero mille cambi, strutture non canoniche, melodie quasi inesistenti, testi tutt’altro che banali, in italiano? Non si può. Il solo modo per cercare di definire il lavoro degli Arsenale è stato descrivere il disco. E neppure in maniera esaustiva. È un ascolto non immediato, decisamente impegnativo e, in quanto tale, degno di nota. Anzi, decisamente interessante.

È un disco che non consiglierei a tutti. Lo indicherei soprattutto per chi ha le orecchie forti e un’apertura mentale notevole. Non tanto per il genere in sé quanto per la struttura dei brani. Davvero bravi. Riuscire a studiare canzoni così variegate non deve essere stato semplice. Di certo l’esperienza raccolta negli anni di inattività li ha aiutati ad essere più consapevoli e più padroni della modalità espressiva.

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