Les Longs Adieux

New Wave, electropop, synth pop, dark, cantautorato d’autore, hard rock… prendete tutto questo, miscelatelo ed otterrete indicativamente i Les Longs Adieux e il loro Piccolo dizionario di parole fraintese. The Cult, Cure, Bauhaus, ma anche Battiato, Matia Bazar, e post punk. Un mix davvero eterogeneo e per questo assolutamente interessante. Il sound dei nostri è ascrivibile a grandi linee nella dark wave. Ma sono limiti troppo astringenti. L’omaggio agli anni ottanta è palese, tuttavia si tratta di un omaggio.

I Les Longs Adieux non cercano di riportare in auge sonorità che non avrebbero molto senso allo stato attuale. Ne mostrano l’evoluzione, non ipotetica quanto reale. Il miscelarsi con altre realtà è un passo indispensabile alla sopravvivenza artistica. E i nostri lo hanno ben capito. Rimangono coerenti con l’oscurità, i suoni elettronici, i synth portandoli in un contesto contemporaneo. E la miscela offre spunti davvero stimolanti. A tenere unito il disco ci pensa la voce femminile.

Nocchiera in un mare nero di pece, tra onde di sentimenti e pantano di rammarico. Tutto in italiano, anche se in certuni frangenti, alternato all’inglese. Battiato insegna. Scelta più che azzeccata e consona. Fare un track by track descrivendo l’andamento dei brani è difficile. Le suggestioni, i cambi all’interno dei brani sono talmente tanti che servirebbero pagine per poterli descrivere. Senza contare che si rovinerebbe il gusto dell’ascolto.

Non rimane quindi che analizzare le sensazioni, del tutto personali, che possono trasmettere. L’immagine che emerge ascoltando il disco in una stanza buia, è quella di una città futurista. Un mix tra Blade Runner, il primo, e il secondo Tron. Il tutto calato in una pentola di oscurità. Le luci al neon colorate non fanno altro che evidenziare il distacco con i vicoli bui. Qui, tra rifiuti e relitti umani, cammina la nostra protagonista. Capelli corti, gialli, irti. Impermeabile dal taglio classico su minigonna di pelle, una maglietta bianca. Un paio di bretelle nere. Anfibi alti e pesanti. Mani in tasca. Passo sicuro.

Sguardo dritto davanti a sé. Non è un personaggio disperato. È sicura. Orgogliosa. Nella sua testa le canzoni passano come racconti di attimi di vita. Ed ecco Calesse. Il ricordo di una relazione chiusa perché dimostratasi effimera. Il brano si apre con una batteria dai suoni secchi sulla quale poggia un arpeggio degno dei migliori Cure degli inizi. Le tastiere entrano come tappeto poco invadente ma presente. Il ritmo incalza. La nostra protagonista si sta avvicinando alla via principale. Luci forti le colpiscono gli occhi.

Si tuffa nel fiume di persone che anima il marciapiede. Negli occhi ancora le immagini dell’ultima discussione. Un sorriso sarcastico le segna la bocca. A farla muovere agilmente tra il marasma di esseri umani è il solo chi chitarra uscito direttamente da una band hard rock. Entra in un locale superaffollato. Una cassa dritta accompagna il suo ingresso. Luci basse. Neon. Folla che balla, parla, sghignazza, beve. Il synth disegna la melodia che la segue. Ancora sprazzi di vita vissuti. Emergono grazie alla chitarra, levatrice di pensieri scomodi. La melodia della voce dà forma ai suoi pensieri.

Cammina tra spintoni e spallate. Improvvisamente un volto. Sembra conosciuto. Basso e chitarra all’unisono segnano il contorno della figura. Il cantato diventa inglese. È l’immagine di un’altra vita. Torna in strada. Di nuovo folla. Una folata di profumo si poggia come sale su una ferita aperta. Una voce narrante, maschile, racconta la storia di una donna problematica, persa in se stessa. Allunga il passo nella speranza di lasciare indietro quelle immagini. La musica incalza. Tiene il tempo dell’andatura. Quasi corre. Ancora la voce narrante che racconta la morte della protagonista della canzone.

Da qui in poi il disco sembra cambiare intensità. Diventa più umorale, come una lama affilata che gioca sulla pelle. La corsa non si ferma. Il ritmo della musica si alza. Incalza, spinge ad un passo veloce. Alla ricerca di un riferimento. Un ricordo che possa far tornare la calma. La chitarra si lancia in un a solo lancinante. Note iterate, distorte. Quasi a cercare di spingere la lama a tagliare l’epidermide. La stanchezza si fa sentire. La nostra rallenta. Si poggia ad un palo per riprendere fiato. La morsa allo stomaco si è placata. Ha però lasciato uno strascico di rimpianti. I suoni diventano più leggeri. La cappa sembra essere meno fitta. Resta solo la chitarra a ricordare la corsa con note dissonanti.

Lentamente il respiro torna normale. Riprende il percorso. Decide di sedersi su una panchina poco distante. Nessuna protezione per gli occhi. La luce degli schermi acceca. Si sforza, adatta lo sguardo e osserva. Osserva la città che le scorre davanti. Gira lentamente lo sguardo e vede la sua vecchia scuola. Ricorda gli studi, la voglia di avere delle riposte, da ovunque potessero arrivare. Si vede giovane, piena di vita, senza sonno, senza stanchezza. Improvvisamente si vede riflessa nel finestrino di una macchina che le passa davanti. Lo specchio della memoria si rompe. Resta immobile sul solo di chitarra.

Con Goccia dopo goccia è la tristezza del ricordo ad avanzare. I ritmi rallentano. Il basso prendere il comando della melodia. La batteria è percussiva. La chitarra disegna fantasmi nell’aria. In quanto tali non sono immagini melodiche. La voce resta evocativa fino a diventare narrativa. Si riappropria del filo dei suoni pensieri, ma non riesce a fermare la malinconia. La sicurezza iniziale inizia a vacillare. Attorno non ci sono più semplici palazzi, vie o piazze. Ci sono ricordi, frangenti di vita, persone conosciute e poi perse. Amici scomparsi. Scelte sbagliate per alternative discutibili. Ora guarda in basso mentre cammina.

Si alza una brezza, lieve, costante. I synth sono i suoi pensieri che escono e fluttuano nell’aria facendosi vividi. Si sente stretta in una morsa. Assieme ai ricordi anche lei è tornata indietro nel tempo. Ha vent’anni o poco meno. Cerca e aspetta la vita. Risolleva lo sguardo. Si guarda attorno come stesse cercando di ritrovarsi. Lo fa guardandosi le mani. Ricordando cosa ha patito e superato. Lo sguardo si fa nuovamente dritto. Si ricompone. Richiude i cassetti della memoria. La nostalgia c’è e rimarrà, pensa. Non rimane che conviverci e andare vanti.

Concludendo. Un disco davvero molto suggestivo. Fatto di numerosissimi chiaro scuro, richiami, immagini. Non è un lavoro tecnico nel senso tradizionale. Lo è in quanto riesce a trasportare l’ascoltatore in un modo che, seppur conosciuto, risulta nuovo perché osservato da un altro punto di vista. Con altri occhi. Il rivivere certi passaggi della vita può affrancarci da essi. Questo pare dire il disco. Sta solo a noi se accettare la sfida o meno.

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