Testo a cura di Carmine Rubicco

Affievolitisi, o quasi, i clamori generati dalla pellicola, vale la pena spendere due parole su uno dei film che più sta facendo discutere attualmente: 50 sfumature di grigio. Prima di addentrarsi  nell’argomento una domanda: ma i bei film li fanno i registi, gli attori, gli sceneggiatori, o la critica e, ancor di più, il pubblico? La domanda nello specifico è più che pertinente dato che nell’intera durata del lungometraggio non c’è una scena che possa giustificare il rumore venutosi a creare.

Non c’è elemento o motivo scandalizzante. Anzi, la banalità, la scontatezza e la noia regnano sovrane. Non ci sono sottotrame degne di questo nome, i personaggi sono appena accennati, le scene di sesso, che tanto hanno fatto discutere, non sono neppure accostabili a quelle di un b-movie italiano degli anni 70. Luci e fotografia, se non a sprazzi e solo grazie a cliché, sono validi. Rispetto a decisamente più illustri predecessori e più recenti concorrenti, 50 sfumature perde su tutta la linea.

Rispetto a, il paragone risulta quasi blasfemo, 9 settimane e ½ o Ultimo tango a Parigi le Sfumature non sono che pallidissimi riflessi, scialbi acquerelli. Medesimo discorso se messo sulla pagina con l’altrettanto discusso Nymphomaniac. Quest’ultimo risulta decisamente più denso, più “malato”, anche più esplicito ma di un esplicito non volgare, dove le scene di sesso perdono di consistenza e forza per fare spazio alle problematiche della protagonista.  

Sam Taylor-Johnson non riesce a far decollare (?) un film già di per sé pianificato per essere amato dalla massa, quindi che non può essere “fastidioso”, irriverente o poco educato come i libri forse richiederebbero. Alla luce di tutti ciò ancor più sconcertano certe critiche o commenti e di spettatori e di critici cinematografici. The Blair witch project, su tanti, ha insegnato che vale molto di più quanto una pellicola fa discutere di quanto valga in realtà nell’ottica che lo spettatore medio non ha senso critico ne preparazione per averne.

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