Intervista a cura di Carmine Rubicco

Quando si parla di arte a tuttotondo non sono molti i nomi cui si possa fare riferimento, Tra questi pochi spunta senza dubbio quello di Taiyo Yamanouchi, in arte Hyst. Tv, musica, fumetti, videomaker per finire con la carriera di produttore. In questa intervista a Tempi Dispari spiega il suo percorso e il nuovo punto di partenza.

Dopo tutte le tue esperienze in campo artistico inteso in senso lato, chi è Hyst oggi?

Più o meno lo stesso di vent’anni fa. Un adolescente con una spiccata tendenza al divertimento e all’estasi artistica. Un’edonista direi che ha solo accumulato qualche esperienza in più.

Che cos’ha il rap in più rispetto alla canzone intesa in senso “tradizionale”?

Non esiste la “canzone tradizionale”. Ogni forma ha un suo percorso e quindi un suo spirito. Ogni spirito ha un potere. La musica latina ha un potere, il folk pure, il cantautorato etc, etc. Persino la musica pop ha un suo potere specifico. Per me il Rap è ghiaccio bollente, rabbia lucida, è una spinta incontenibile ma con un ragionamento dietro. È quello per cui è nato e nel modo in cui è nato. Poi chiaramente come le altre musiche si può fondere e diventare più dolce, più giocoso.. ma quello del Rap è uno spirito di rivalsa, di presa di coscienza della propria posizione e funzione nel mondo.

Hai conosciuto dall’interno il mondo del cinema, cosa ti ha lasciato, in senso positivo, e di cosa sei rimasto deluso, se qualcosa ti ha deluso?

Non sono deluso, non ho trovato cose che non mi aspettassi già. Come ogni ambito artistico nel momento in cui si scontra col lato industriale deve fare i conti con le logiche del mercato, del potere e dei soldi. Sta al singolo riuscire a mediare e a fare in modo che la parte artistica rimanga il più intatta possibile. Conosco gente in ogni settore che è capace di tenere i due ambiti separati  e    gestire la parte economica e di contatti pur rimanendo solido e comunicativo come artista. È chiaro che è più difficile fare arte in questo modo e più semplice accondiscendere, ma sono convinto che alla lunga lo sforzo di tenere il livello alto paga.

Ritieni che in Italia ci sia spazio per il cinema indipendente?

Certo. Aumentano ogni anno i giovani che prendono l’iniziativa e producono materiale fresco e interessante. I costi di produzione si abbassano man mano che la tecnologia ci viene incontro. Il risultato è che viene prodotto molto più materiale e non tutto è a livello, come succede anche nella musica d’altronde. Ma ad un certo punto subentra una seleziona naturale per cui quelli capaci vanno avanti.

Hai toccato anche il mondo del fumetto, lo segui ancora? Se si, chi segui e perché?

Non seguo praticamente più nessuna pubblicazione, di quando in quando alcuni amici mi mostrano qualche graphic novel degna di nota. Ho avuto un periodo in cui ho accumulato la maggior parte delle influenze e per ora mi bastano. Quando pubblicherò qualcosa ed avrò finito di esplorare i linguaggi che conosco probabilmente avrò di nuovo bisogno di riempirmi di stimoli.

Tornando alla musica, quanta vita dai al rap? Ci sono nuove leve valide, in grado di portare novità all’interno del genere?

Il Rap è ormai uno stile affermato e non sparirà. Anche perché si è oramai fuso e sviluppato linkandosi con altre discipline, a teatro, in tv, nella letteratura e nella poesia. Ci sono e ci saranno sempre nuove leve. I più si limitano a copiare e a soddisfarsi rapidamente, accontentandosi di qualche view e due live, ma alcuni si troveranno in un momento in cui capiranno di avere in mano uno strumento importante, delle cose da dire e andranno avanti.

Il tuo disco, da dove nasce? Un’esigenza?

Esatto. Tutto quello che faccio nasce da un’esigenza. Probabilmente la più antica e banale. Quella di raccontarsi raccontando. Di mettersi in connessione con altri individui, di isolare delle piccole verità.

Fondamentali nel rap sono i testi. Come nasce un testo di Hyst?

Focalizzando una sensazione. Mi fisso su una nota particolare del sentire e la sviluppo, creo le immagini che preludono ad essa e che la seguono. A volte può essere comodo utilizzare la forma dello storytelling, altre volte un flusso irrazionale di termini ed assonanze funziona meglio. L’importante è che alla fine dell’ascolto rimanga quel sapore, da cui tutto è cominciato.

Quanto ha influito la tua doppia nazionalità nella tua formazione stilistica?

Molto, come in tutti gli aspetti della mia vita. Appartenere a due mondi mi ha messo nella condizione di dovermi sempre chiedere chi sono io in realtà, senza poter dare nulla per scontato. Questa abitudine si riflette poi nel modo in cui guardo alla vita e alle cose che succedono. Mi chiedo sempre quale sia l’origine di un evento o di un sentimento, a che mondo appartenga. Lo analizzo come uno scienziato fino a quando sono pronto a descriverlo.

Per molti versi puoi essere considerato un esempio per chi voglia vivere l’arte a 360°, che cosa ti sentiresti di consigliare alle nuove leve, sia in ambito musicale che non?

Di non dare nulla per scontato, né il proprio talento, né le opportunità che capitano, di continuare a chiedersi sempre “cosa sto facendo?” e “voglio davvero continuare a farlo?” perché la cosa peggiore che può succedere è di trovarsi intrappolato in una simil carriera da artista e non avere nulla da dire senza avere il coraggio di ammetterlo a se stessi, il che produce una situazione di frustrazione incredibile. Prima di iniziare a pensare di fare l’artista una persona dovrebbe chiedersi se oltre alla notorietà, al divertimento, ai viaggi, etc.. c’è un motivo profondo che lo spinge a comunicare. Se non c’è meglio dedicarsi a qualcos’altro. Non si può forzare la natura, chi lo fa è infelice.

Com’è l’underground romano? Vitale o troppo autoreferenziale?

Entrambe le cose. Ma più di ogni altra cosa è immaturo. Non parlo dei singoli artisti chiaramente, ma dell’underground inteso come movimento. A Roma mille talenti si perdono per l’incapacità di muoversi collettivamente. L’ampiezza del territorio crea tante realtà sconnesse che se si supportassero a vicenda produrrebbero un grande fenomeno culturale e musicale.

Domanda Tempi Dispari: se fossi tu ad intervistare, chi intervisteresti e cosa chiederesti?

Jimi Hendrix e gli chiederei se c’era davvero bisogno di bere così quella notte.

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