Escape to the roof

Non hanno volto, non hanno nome, solo pseudonimi, e utilizzano l’anonimato come ‘arma’ contro la banalità che ci circonda. Con un disco all’attivo (recensione) il loro è un rock viscerale, diretto, senza orpelli. La loro ‘parte migliore’ sono l’ironia, l’autocoscienza, e una profondità ben maggiore rispetto a ciò che vorrebbero dare a vedere. In questa intervista, davvero stimolante ed appassionante, per le risposte, ovviamente, gli Escape to the roof si raccontano. Lasciano trasparire quel tanto che basta per apprezzarli al di là delle maschere, appunto, e come strenui difensori dei valore umano. Tutta da leggere e rileggere.

Una presentazione per chi non vi conosce.

Escape to the Roof è un gruppo musicale rock italiano. I membri, che usano gli pseudonimi di G.C.Wells (voce e chitarre), Jann Ritzkopf VI (chitarre, soundscapes e live electronics), Zikiki Jim (basso) e Luis Canemorto (batteria), hanno deciso di rimanere anonimi.

Non hanno raggiunto la notorietà in seguito alla partecipazione a nessuno dei talent nazionali e internazionali più ambiti. Grazie a questa mancata esperienza non hanno firmato un contratto per nessuna delle major discografiche (Warner, Sony, Universal), e neanche medium, e neanche small.

Nonostante tutto, il 21 ottobre del 2022 pubblicano Fried Blues Chicken, primo singolo dell’omonimo album, che non consacra il gruppo a livello nazionale. Segue il secondo singolo, Still Raining, uscito a dicembre dello stesso anno. Il brano ha permesso alla formazione di non trionfare in nessuna delle edizioni del Festival di Sanremo, o del Festival di Castrocaro, e neanche di Castrocacchio. Per non parlare della successiva edizione dell’Eurovision Song Contest, ma che un’illustre addetta ai lavori ha recensito come brano della piena e raggiunta immaturità della band, in cui il batterista è un po’ troppo protagonista.

Il 23 gennaio del 2023 esce finalmente il tanto non atteso album di debutto omonimo, che permette agli Escape to the Roof di non affermarsi al livello mondiale, facendo sì che diversi brani della loro discografia non scalino le classifiche internazionali.

Sul piano stilistico gli Escape to the Roof non pescano a piene mani dalle sonorità degli anni d’oro dell’hard rock degli anni ’70, disdegnano incursioni progressive, e si tengono lontani dalle sperimentazioni elettroacustiche, per non parlare del noise rock.

Quando e perché è nata l’avventura Escape to the Roof?

L’idea Escape to the Roof è nata circa nel 2017, un po’ per gioco, un po’ per distrazione dalle cose quotidiane della vita, che nel caso di ognuno di noi sempre si trattava di cose collegate alla musica a dire il vero. Ma ognuno di noi era impegnato in progetti apparentemente lontani dal concetto di rock band, quindi, all’inizio, era quasi esclusivamente per passare un paio d’ore alla sera a suonare le nostre canzoni preferite.

Un giorno, in un momento di cazzeggio con la chitarra in mano, spenta per altro, mi sono capitati sotto le dita, inavvertitamente, un paio di riff, qualche giro armonico, cose del genere, che hanno attirato la mia attenzione. Non gli ho dato troppo peso, ho sempre scritto musica, e chi lo sa perché succede così? sono frammenti che vagano nell’aria, il ciarlare di personaggi in cerca d’autore che svolazzano nell’etere senza meta, incontrano la percezione dei fortunati senza avvisare, ma nella maggior parte dei casi sono manifestazioni fuggevoli.

Invece, nei giorni seguenti ho presto compreso che questi fantasmi volevano restare, non era la solita visita fugace. Quindi, ho aperto la porta, li ho accolti come si deve, si sono accomodati e hanno cominciato a raccontare ognuno la propria storia. È stato come dischiudere un portale che ha svelato un mondo immaginario incantato, seppellito da chissà quanto tempo dentro di me, e che chiedeva furiosamente di essere dissepolto, esplorato e raccontato: non ho più smesso di scrivere, o di trascrivere.

Avete scelto l’anonimato per dare maggiore peso alla vostra musica. Non è controproducente nell’era dell’immagine?

Molto controproducente, e anche faticosissimo. Ci siamo giocati in un attimo il supporto degli amici, dei parenti, dei colleghi che ci stimano, nonché il disappunto e la malevolenza dei nemici, degli scettici e dei colleghi che non ci stimano, che sono sempre un motore potentissimo, in entrambi i casi. Ma era l’unica posizione da prendere per fugare, in modo definitivo, i nostri eterni dubbi sul gesto artistico: nessun compromesso, nessuna ricerca di consensi, nessuna critica o elogio con interessamento strategico.

L’opera è lì, ed è esattamente come la vedete, e ognuno può farci quello che vuole, è consegnata per sempre alle cronache. Personalmente non sono mai andato alla ricerca di consensi, che, indubbiamente, quando arrivano ti fanno comunque immenso piacere, ma sono stato sempre un artista che si misura prima di tutto con se stesso, per provare ad accorciare la distanza che separa le mie capacità da quelle dei grandi della storia; per cui questa scelta, che per alcuni può sembrare radicale, in realtà mi rappresenta perfettamente, e il resto della band era d’accordo.

Credo, inoltre, sia l’unica cosa rimasta da fare come atto di nuova insurrezione rispetto a quello che ci circonda, e intendo insurrezione profonda, ossia quella che nasce dall’urgenza interiore del sovversivo. Aggiungo, ancora, che un atto artistico dissociato dalla biografia del suo autore, aiuta l’utilizzatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente. È l’unica maniera per fare diventare l’atto artistico arte collettiva, che è alla fine dei conti la massima aspirazione per un artista. I nomi alle volte sono solo segnaposti, o peggio, decorazioni per lapidi.

Il vostro è un disco piuttosto variegato ma saldamente agganciato a radici rock. Quali sono le vostre influenze?

Su tutti Serebro, ma anche Pussycat Dolls, Sophie Ellis-Bextor, Natalie Imbruglia, Lola Ponce, Gwen Stefani, Rihanna, Dua Lipa, Sandra Nasic… e tra le influenze italiane le prime che mi vengono in mente sono Elodie, Emma Marrone, Dolcenera… ma ne dimentico certamente qualcuna… Vi sento disorientati, ovunque voi siate.

Ok ok…! Sono riconoscibilissime le influenze dei Led Zeppelin, Deep Purple, AC/DC, Pink Floyd, ZZ Top, Bob Dylan, Beatles, King Crimson, Muse per citarne alcuni, ma anche Brahms, Purcell, Monteverdi, e molti altri tra i compositori più “anziani”; per non parlare di Omero, Euripide, Dante, Lorenzo il Magnifico, fino a Pasolini, Ritsos, Panagulis, Kate Tempest e tanti altri che dimentico tra poeti e scrittori.

Per non parlare di pittori, scultori, street artists e filmakers: Kandiski, Dalì, Damien Hirst, Banksy, Sergio Leone, Quantin Tarantino, Martin Scorsese, Krzysztof Kieslowski, per nominare solo i primi che mi vengono in mente in ordine sparso, la lista è interminabile. Tutto ciò che abbiamo masticato e assimilato nel periodo della formazione, o praticato per piacere, o per nutrire la fame di conoscenza, o la semplice passeggera curiosità, concorre al novero delle influenze di qualunque artista.

Come vi siete avvicinati a questo genere di musica?

Per quanto riguarda la mia esperienza personale, si tratta ancora dell’attitudine che ho sempre avuto nel misurarmi con i maggiori rappresentati, realmente esistiti o meno, della storia dell’umanità in ognuna delle discipline alle quali ho deciso di avvicinarmi in passato. Perciò, quando da bambino pensavo di potere essere utile all’umanità come eroe, l’accostamento è stato semplice, volevo diventare come Achille; oppure utile come profeta, volevo diventare Confucio.

Poi, più grande, come poeta, volevo diventare il figlio ipotetico di Pasolini, Quasimodo e Prèvert. Quando ho incontrato la chitarra, gli eroi con i quali misurarsi erano gli Dei del Rock, David Gilmour, Jimmy Page, Jeff Beck, Eric Clapton & company, anche qui la lista è interminabile. Sono cresciuto ammirando e cercando di seguire le orme dei miei eroi.

Il rock è immortale?

Quello fatto bene assolutamente sì, come sono immortali L’Iliade e L’Odissea, La Divina Commedia, La Cupola del Brunelleschi, Il David di Michelangelo, il Cenacolo di Leonardo Da Vinci, il Requiem di Mozart, La Recherche di Marcel Proust, Il Clavicembalo Ben Temperato eseguito da Glenn Gould, La Ciaccona di Bach eseguita da Perlmann, La Teoria della Relatività di Albert Einstein, Il Capitale di Marx, La Disobbedienza Civile di Thoreau, la Morale Anarchica di Bakunin, La Rivoluzione Cubana, e persino la Mano de Dios di Maradona al mondiale dell’86.

Quando l’eroe supera incomprensibilmente il limite che si riteneva invalicabile delle capacità unanimemente riconosciute al genere umano, l’atto istantaneamente si trasforma in epica ed entra a fare parte della storia dell’umanità. Il punto più alto che l’umanità ha raggiunto nel rock è, a mio avviso, il concerto dei Led Zeppelin al Madison Square Garden nel ’73, The Song Remains The Same, epos allo stato solido.

Che cosa significa per voi essere rock e suonare rock?

Una volta Glenn Hughes, durante un’intervista alla quale ero presente, rispondendo alla stessa domanda, disse: “Essere Rock è avere le palle!” Scoppiò un applauso unanime e fragoroso. Allora pensai “la classica frase a effetto della rockstar”. Oggi, sono più d’accordo con lui di quanto non riuscii allora, e con gli anni poi ci ho anche pensato su, e mi sono convinto che la cosa non vale solo per il rock, vale per tutto. Una precisazione, però, voglio farla.

Sono sempre stato convinto che la tradizionale classificazione della musica per generi sia un po’ troppo riduttiva rispetto allo sforzo dell’artista, il quale deve impegnarsi immensamente per raggiungere maturità in cifra stilistica, trovare una vena d’ispirazione gravida, e produrre risultati di livello, e poi difendersi da dubbi di ritorno, critiche feroci, elogi fasulli e consensi interessati. Secondo me, la classificazione giusta da fare è tra buona musica e cattiva musica, buona arte e cattiva arte. Per me questo è avere le palle, ossia inseguire alti livelli di realizzazione studiando, lavorando e pedalando a testa bassa, qualunque cosa dicano gli altri, che non sanno quanto tu ti stia sbattendo per raggiungere il fine.

Se necessario andare contro tutto e tutti se hai una visione, che devi inseguire fino alla sua completa realizzazione. Inseguire la propria verità, cercando di coniugare tutto con una percezione reale e obiettiva, fedeli a se stessi e spietatamente rigorosi allo stesso tempo. Ecco, questo per me è avere le palle e quindi essere rock.

Come nascono i vostri brani?

Nella band non ci sono accordi pregressi su chi scrive, anche se è capitato che io sia stato il principale autore dei testi in questo disco, ma tutti abbiamo massima libertà, e ognuno segue il proprio metodo, e molti sono segreti di bottega dei quali si può anche essere molto gelosi. Ma volendo inaugurare una fase in cui, protetto il concetto di anonimato, cominciare a far trapelare qualcosa di intimo della band, proverò a illustrare parte del mio personale processo creativo.

Le mie sessioni di lavoro per produrre nuovo materiale prevedono un approccio laboratoriale, caratteristica tipica che ho imparato e adottato dalla frequentazione assidua di ambienti vicini a un certo tipo di teatro di ricerca, la cui metodologia di sperimentazione mi è molto cara. Parto sempre da uno spunto preciso (o dalla mancanza di questo), che può essere qualsiasi cosa, un’idea, un concetto, una sensazione, l’emozione di un momento rivelatorio di qualcosa d’importante, qualcosa che mi ha colpito particolarmente dalla lettura di un libro, dalla visione di un film, dall’ascolto di un disco, o dall’avere assistito a un’esecuzione particolarmente emozionante di qualcuno; comunque, per la maggior parte dei casi, si tratta di evocazione e meditazione a posteriori.

Poi il procedimento può investire sia la parte testuale sia musicale. Questa fase è prettamente improvvisativa. Alle volte non viene fuori nulla, ma nella maggior parte dei casi sì. Ci dormo sopra, e se il giorno dopo lo ricordo ancora, allora vale la pena di appuntarlo su pentagramma. Ecco che ho il nucleo iniziale che poi sarà, attraverso procedimenti compositivi ben precisi, il generatore di tutto il materiale tematico della canzone, della sua struttura e della sua organizzazione.

In ogni nucleo c’è già tutto, bisogna solo tirarlo fuori. Alla fine, e solo alla fine, aggiungo il testo, ma a quel punto si tratta di abbandonarsi alla poesia. Io, sempre, scrivo in solitudine assoluta, ho bisogno di vagare nel mio magico mondo fatato in completo abbandono della realtà, per incontrare i miei fantasmi e farmi condurre dai miei personaggi.

Quanto è difficile suonare in una rock band oggi e quanto è difficile far suonare una rock band.

Suonare in una rock band non è difficile, e neanche farla suonare. La cosa difficile è trovare le giuste risorse a supporto del progetto, affinché cresca e raggiunga livelli di diffusione abbastanza considerevoli da potersi dire professionistico. Non voglio fare il solito discorso di chi demonizza Spotify e tutte le piattaforme di streaming, che per certi versi rappresentano anche un interessante canale di diffusione, ma è innegabile che il crollo dell’industria discografica, con la conseguente scomparsa delle piccole e medie etichette, ha lasciato una sola possibilità alle band emergenti, l’autoproduzione.

Escape to the Roof è un progetto nuovo, e quindi ascrivibile alla categoria emergente, ma ognuno di noi, singolarmente, ha una storia pregressa, e progetti paralleli di tutto rispetto. Oggi l’autoproduzione non è impossibile, ma è molto faticosa e, ovviamente, molto dispendiosa, nei termini di risorse sia finanziarie sia di tempo vita da destinare alle varie fasi, ma ci sono anche aspetti positivi, uno su tutti è che non devi duellare col tipaccio che ti rompe continuamente le palle perché due minuti e mezzo di rumori ed effetti speciali prima dell’inizio Now it’s just you and me non sono caratteristiche tipiche di un prodotto che si deve commercializzare: “non si sposa bene con il jingle che annuncia New hit! New hit!”.

Quindi, quando sei padrone e facitore del tuo stesso destino, ti puoi anche prendere delle libertà artistiche che un’etichetta major, che deve pensare ai numeri, non può permettersi.

Da dove prendete ispirazione per i testi?

Come già detto, nel nucleo embrionale di una canzone c’è già tutto, anche il germe del testo. Ho rivelato parte del mio procedimento creativo, ma il vero segreto di bottega sta nel trattamento dei materiali compositivi che nascono tutti incredibilmente all’interno del nucleo iniziale. È come cogliere i momenti della nascita di una nuova vita e semplicemente fotografarlo man mano che prende forma. Naturalmente come per le influenze musicali, anche per quelle letterarie la lista è interminabile.

Fin da bambino i miei compagni di giochi spesso si trovavano nella libreria di famiglia piuttosto che per strada. Anzi, portavo con me tutti i miei eroi quando per strada si trattava di battersi per trovare un posto preciso nella società dei piccoli. Andavo matto per i miti greci, ed è ancora così. Ogni autore che abbiamo incontrato, masticato e amato durante la vita ci ha lasciato un segno profondo, ma quando sei bimbo il segno è più profondo.

Un brano famoso che vi sarebbe piaciuto scrivere?

Il mio concetto di scrittura si serve di una misura che va oltre il brano singolo, ci vuole almeno un album. Ovviamente parlo per me. Devo dire che la scelta è difficilissima: sono stato un ascoltatore seriale di moltissimi album che hanno significato, ognuno per un motivo diverso, una scossa nella mia esperienza di crescita musicale. Per esempio The Wall dei Pink Floyd: ci sono stati momenti da ragazzino che quando mi capitava anche solo di accennare un passaggio qualunque di quel disco, che automaticamente partiva l’esecuzione integrale.

Ma anche questi fanatismi sono frutto d’infatuazioni che, anche se segnano profondamente, sono comunque delle passioni passeggere e momentanee, sostituite a loro volta da altre passioni, altrettanto sfrenate e compulsive al momento quanto inesorabilmente e nuovamente passeggere e momentanee. Quindi, per rispondere alla domanda, sotto l’influenza della passione di questo momento, dico che se penso a un album che mi sarebbe piaciuto assai scrivere, quello è Frances The Mute di The Mars Volta.

Invece, ripensandoci, nel caso di un unico brano famoso, la cui passione non scema mai, ed è anzi sempre frutto d’ispirazione e meditazione profonda, mi piacerebbe immensamente avere scritto il Requiem di Mozart. Lo so ho sparato altissimo, ma che capolavoro eterno di perfezione assoluta è? Sarei stato disponibile a morire a trentasei anni in cambio di averlo scritto.

Ieri l’idea, oggi il disco… e domani?

Un tour di concerti che porti in scena la versione 2.0 del disco, sul quale non mi pronuncio perché trattasi di progetto che, così come l’abbiamo pensato, forse è un po’ troppo fuori dalle nostre attuali possibilità produttivo-finanziarie, ma vedremo. E domani un altro disco, già in cantiere, che vorremmo vedesse le prime luci alla fine del 2023, anche solo con un paio di singoli. Vedremo.

Una domanda che non vi hanno mai posto ma vi piacerebbe vi fosse rivolta.

Non mi sono mai preoccupato delle domande che non mi hanno mai posto, per cui non saprei dire. Ma posso dire della domanda che a un certo punto in poi hanno smesso di farmi e che mi piacerebbe mi fosse fatta ancora: “Che vuoi fare da grande?”. Domanda, alla quale, per gioco, ho sempre risposto in maniera diversa, e ciò dipendeva molto da chi me la poneva. All’interlocutore maldisposto e scettico che sarei riuscito a vivere di musica, rispondevo “il bagnino”. Oggi, se la domanda mi fosse posta senza malizia e con sincerità di cuore, risponderei “il fantasma”.

Se foste voi a intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del tempo, chi intervistereste e cosa gli chiedereste?

Questa domanda mi mette in profondissima crisi. Ci sono moltissimi personaggi che hanno assunto il ruolo di miei eroi, che considero anche, prima di tutto, i miei morti, e col tempo sono diventati i miei fantasmi. Come faccio a sceglierne uno? Direi che, anche per questo caso, sotto l’influenza della passione momentanea, sceglierei di intervistare Lorenzo de’ Medici nel giorno della congiura dei Pazzi.

E gli chiederei: “Se foste voi a intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del tempo, chi intervistereste, e cosa gli chiedereste?” No scherzo! Probabilmente gli chiederei: “Come si sente Lorenzo il Magnifico a viver per seguir virtute e canoscenza, con la consapevolezza di essere nato tra i bruti?”.

Secondo me risponderebbe? “Di merda! Disadattato e sociopatico hompleto! Ma meglio che bischero!” Sì, me lo immagino con la parlata del Necchi di Amici Miei, perché nel mio mondo narrativo spesso sacro e profano, tragedia e commedia si mischiano crudelmente, anche se a parlare è un Magnifico Lorenzo de’ Medici che sta andando a morire. Non morirà, né lì né mai.

Un saluto e una raccomandazione a chi vi legge.

In questi casi ci viene in soccorso sempre il buon vecchio Jack Burton da Grosso Guaio a Chinatown:

“I consigli del vecchio Pork Chop Express sono preziosi, specialmente nelle serate buie e tempestose, quando i fulmini lampeggiano, i tuoni rimbombano e la pioggia viene giù in gocce pesanti come piombo. Basta che vi ricordiate cosa fa il vecchio Jack Burton, quando dal cielo arrivano frecce sotto forma di pioggia e i tuoni fanno tremare i pilastri del cielo. Sì, il vecchio Jack Burton guarda il ciclone scatenato proprio nell’occhio e dice: “Mena il tuo colpo più duro, amico. Non mi fai paura”.”

Un saluto a tutti, e mi raccomando, coraggio, sempre.

G.C.Wells, 3 Febbraio 2023

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