andrea ra urlo eretico

Andrea Ra con il suo ultimo Urlo eretico conferma e afferma la propria singolarità. Un disco complesso, dai testi diretti, suoni caustici, infinite influenze, sperimentazione a fiotti. Incatalogabile, come i singoli avevano annunciato. Il cd si apre con la già conosciuta Sensi di colpa (recensione) che mette subito in chiaro le cose. Se si supera questo primo impatto, non si potrà che amare tutto il disco. Se invece non si riesce ad arrivare in fondo, inutile continuare. La successiva Capoclown aggroviglia ancora di più l’ascolto. Si parte con un’intro che richiama i Primus più ispirati. Il prosieguo è sulla medesima falsa riga. I toni si abbassano leggermente con l’ingresso della voce. Inarrestabili invece i cambi.

Dissonanze, basso martellante, batteria irrefrenabile. Come se non fosse sufficiente, a metà vengono introdotti interventi elettronici. La tecnica della band emerge ad ogni solco. La strofa è il solo elemento lineare. Batteria dritta, basso percussivo. Gli intermezzi strumentali sono esplosioni di suoni. Il basso domina. La chitarra sottolinea con fraseggi dissonanti. Il break centrale offre uno spiraglio di respiro ma viene subito chiuso. Il testo è una denuncia al music business e una dichiarazione ‘politica’ dei nostro. Stupefacente riff in slap prima della chiusura. Segue Pillole rosse.

Si cambia radicalmente registro. Andamento lineare. Intro con suoni lunghi accompagnati dai synth. La voce si fa evocativa. Il ritornello fa impennare la canzone. Vengono introdotti archi, la chitarra si concentra sulle corde basse. La reprise spiazza. Un blues lacerante dall’andamento lento. La sei corde interviene con un crunch adeguato al nuovo contesto e note ad hoc. Si ripresenta il muro del ritornello. Questo alternarsi di intensità caratterizza tutto il brano. Il solo di chitarra è blues su base di synth. Un breve break solo voce, batteria e tastiera funge da miccia per l’esplosione del ritornello. Nuova trasformazione.

Da blues a ballata hard rock. La chitarra incattivisce i suoni e conseguenzialmente l’andamento del solo che diventa lancinante, veloce. Il finale muta di nuovo. Si rallenta. Tastiera in primo piano. La chitarra sfuma. Si prosegue con Firenze. I toni si alzano si nuovo. Si torna su coordinate sperimentali. Basso martellante, batteria come un mare in tempesta. Chitarra dissonante. Voci che si alternano, tra urlato e parte narrante. Ma non basta. Su quest’ultima si poggia un passaggio che richiama il cantato mediorentale. Improvvisamente si erge la melodia del ritornello.

I passaggi si alternano col la medesima struttura fino al cambio successivo. Dopo il secondo chorus il ritmo si fa spezzettato. La voce è narrante. La batteria non si ripete praticamente mai. Le dissonanze si fanno più pressanti. Il basso non si ferma mai. Si riapre il ritornello. Ancora ritmo spezzato. La voce va in crescendo. Quando sembra chiaro dove la canzone arriverà, nuovo cambio. Calo di intensità. Ma è solo preludio alla cavalcata finale. Torna l’alternanza precedente. Questa volta caratterizzata da un finale che cresce di intensità. È il momento di Monte Shasta, secondo singolo già recensito (recensione). Si prosegue con Io mi vesto di nero. Nuovo cambio. Campana del ride, basso iterante, voce narrante. Una miccia per la bomba che esplode da li a poco. Andamento marziale, ipercompresso, solo accenti.

Non c’è un riff portante. Cambio. Arriva l’intensità sonora del disco. Basso e batteria creano un muro impenetrabile. La chitarra accentua con note dissonanti. Si cambia di nuovo. Torna l’andamento iniziale. La differenza sono i suoni che le sei corde introduce. Il passaggio successivo è ascrivibile solo al noise industriale. Entra un riff granitico con doppia cassa potente. Il viaggio non è finito. Nuovo mutamento. Il brano diventa funky. Per un po’.

Dopo di che tornano i Primus con un basso in primo piano. Si cambia ancora. Intervento dei synth che introducono un solo di chitarra sullo stile di Tom morello. Pausa. Brano circolare. Si ripete l’intro. Ovviamente non nella stesso modo. Vengono introdotti suoni di batteria più pesanti, pieni. Con Giuda Iscariota si vola in medio oriente. Batteria percussiva. I synth la fanno da padroni creando la giusta atmosfera. Oltre alla batteria sono presenti percussioni a tema. Il basso segue una propria strada. Suono metallico, martellante, ora in slap, ora suonato a dita.

La voce è un alternarsi si alti e bassi. Il solo è su una base coinvolgente, evocativa ed è affidato alle tastiere. Il cantato diventa narrazione. Si prepara un nuovo cambio introdotto dal un passaggio di batteria. Le linee melodiche orientaleggianti si fanno più pressanti. Nuovo interludio. Percussivo. Stop. Nuovo cambio. Dall’Arabia si arriva a Berlino, alla tecno. Suoni sintetici, tastiere, voce narrante portano alla conclusione. Monopensiero è il brano successivo. Nuovamente suoni sintetici. Voce conseguenziale. La stessa chitarra utilizza interventi ad hoc. Il testo è una denuncia sul pensiero unico. Si alternano momenti pieni e vuoti di suoni. L’andamento kraut rock viene interrotto a metà da un intervallo metal. Un breve passaggio che spezza il già complesso andamento generale.

Quello che ne emerge è un andamento quasi psichedelico, ipnotico. Fino al cambio seguente. Il basso riprende in mano le redini. Slap, su una base che non si può tradurre a parole. La batteria introduce un ritmo swing. L’intensità cala. È solo un introduzione allo scoppio finale. Si passa a Mi vuol sigillare. Intro con voce distorta. Tutti gli strumenti entrano assieme su un tempo in levare. Passaggio cadenzato. Rock quasi. La struttura introduttiva si ripete. Non uguale. Cambia la batteria, l’accompagnamento del basso. Quello che succede dopo può essere paragonato solo ad un passaggio sperimentale ipertecnico. Ogni strumento, apparentemente, segue una linea propria.

Nuovamente ritmo in levare con doppia cassa iterante. Improvvisamente si cambia del tutto. Arriva il suono di un carrillon. Nuova sfuriata. Ancora un cambio, lento, che porta al finale. Dipendenza è la scheggia di follia che segue. I primi momenti sono degni di Vangelis. Ma sono solo momenti. All’improvviso entra un basso dall’andamento impressionante su base sintetica. La chitarra funfe da base ritmica. Il basso è inarrestabile. La sei corda si scambia il palcoscenico con i synth. La batteria è indescrivibile. Il solo è in free jazz. Riporta tutto su binari il segmento seguente, più ritmico. Sempre non lineare. È l’anticamera di quello che accadrà dopo, prima del rientro della voce.

Frangenti che a voce non possono essere descritti. Suoni, tempi composti, sessioni percussive, il basso che segue un andamento proprio, così la chitarra in un crescendo che arriva al suo apice sul finale con as solo dissonante e ritmo incalzante. Il mondo è droga introduce ancora suoni elettronici. Il basso a base funky si fonde con la base sintetica. Così come la batteria. Ad un quarto un cambio. Si rallenta. I suoni si dilatano. Il basso si lancia in un a solo jazzato. La chitarra ha riverberi ed eco. Si prosegue su questa falsa riga. La voce rientra con un urlo in crescendo. Sale l’intensità complessiva.

Arriva il solo di chitarra. Note lunghe, riverberate. La voce lo doppia. La batteria continua a disegnare architetture ritmiche differenti. La chitarra dà sfogo alla propria tecnica con un a solo lungo, eterogeneo che termina su un tappeto di tastiera su cui poggia la voce riprendendo il ritornello. Il brano da qui non torna poi indietro. Dopo i funambolismi della chitarra è il turno del basso di stupire con un a solo che alterna diverse tecniche e suoni e che conduce alla chiusura. Il finale del disco è affidato a Franco. Il riff portante è compito del basso.

Le sue melodie si intrecciano con quelle della sei corde che non segue lo stesso andamento armonico. Allo stesso modo il brano non è lineare. Tra di diversi generi toccati c’è che il cantato popolare italiano e ‘aperture’ melodiche. Fraseggi cadenzati caratterizzano i frangenti prima dello spcial stopo and go. Sul finale il basso è quasi da solo caratterizzato dal fatto di essere suonato con un arco volino, così come fin dall’inizio del brano.

Concludendo. Quanto sopra scritto è un pallido tentativo di descrivere ciò che è il disco di Andrea Ra. Pallido perché, per quanto ci si possa sforzare, è impossibile riuscire a far capire cosa accade davvero all’interno delle tracce. È come cercare di spiegare il mare in tempesta. Come si fa? Cosa si potrebbe dire? Ora arriva un’onda più alta, ora una più bassa, adesso sembra calmo, poi si infuria e le onde diventano enormi, si accavallano, sembra che vadano nella stessa direzione ma poi ognuna prende una strada diversa? Come si fa ad esprimerlo a parole? Si può solo provare a far capire cosa sta accadendo.

Volendo andare oltre potremmo paragonare la recensione alla trasposizione per iscritto di un sentimento. Qualsiasi. In che modo lo si può descrivere in modo abbastanza chiaro affinchè chi non lo ha mai provato possa capire? E così è il disco di Ra. Un mare musicale in tempesta, un melting pot di sensazioni e sentimenti. Una sola cosa è certa: chi lo ha composto e suonato ha una conoscenza del proprio strumento, della musica in generale, anche come fenomeno matematico, che quasi non ha eguali. Non ne ha in questo universo se non i geni o i folli. Possiamo chiamare in causa, come riferimenti, sono nomi altisonanti come Frank Zappa, Mr Bungle, Primus, Buckethead. Il che già dovrebbe rendere l’idea dalla cifra complessiva.

Un disco senza mezze misure. O piace tantissimo o lo si odia profondamente. Voi, da quale lato scegliete di essere?

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