radio8

Prendete i primi Motley Crue, fino al terzo disco, mischiateli con l’ondata crossover dei primi anni 2000, una puntatina di punk e hard rock. Questa, a grandi linne, è ciò che sono i Radio8 con il loro ultimo Disconnect. Disco uscito il 3 marzo. Tredici tracce dirette, saltellanti, potenti. A tirare le redini quella vena irriverente tipica di band come Gang Green, Ugly kid Joe et similia. Le capacità tecniche ai nostri non mancano. Ottima padronanza degli strumenti, del songwriting, dell’alternanza di passaggi concitati a momenti si più lenti, ma comunque pesanti.

Si senta Memories per averne un chiaro esempio. Il suono complessivo è duro, compatto, spesso oscuro. Molto ben azzeccato il riff portante della canzone. Presente come influenza anche un certo crossover di fine anni ’90, Atom Seed, Terrorvision e via citando. Non in maniera smaccata, ma la presenza si sente. Vuoi per il basso martellante, il cantato che si discosta dalle linee ritmiche o i riff di chitarra. Pur nei frangenti che apparentemente sono più aperti, ariosi, si ascolti Party, non viene mai meno una certa vena oscura, cupa. Le canzoni non si alleggeriscono mai.

E credo che sia nelle intenzioni della band mantenere una certa ‘potenza di fuoco’. Altra caratteristica azzeccata dai Radio8 è la scelta dei mid tempo rispetto all’alta velocità. Il mid tempo offre la possibilità di poter assaporare appieno i passaggi fin dal primo ascolto senza perdersi in marasmi sonori. In tal senso molto buono il lavoro della chitarra solista. A solo sempre di gusto, circostanziati, mai inutile sfoggio di tecnica. La ballata di turno, Woman, si caratterizza per l’incedere del basso che nell’intro si propone come strumento principale. Sul tappeto della sezione ritmica si poggia poi in arpeggio iterante di chitarra pulita. Pure in questo caso le atmosfere restano cupe.

Quasi a richiamare il Glen Danzig più oscuro. Si alternano frangenti in pulito a refrain ipercompressi coadiuvati da interventi solisti. A circa ¾ l’inatteso. Il tetro paesaggio si trasforma in un hard rock andante fino alla fine. Non che la cappa di oscurità si dissolva. Arriva poi Highway. Uno dei brani più veloci. Come da titolo, un omaggio a quella frangia di motociclisti che corrono nel deserto compiendo epici viaggi da una parte all’altra degli USA. Hard rock sporco, diretto con qualche sporcatura stoner.

Si va avanti il secondo lento del disco. Lullaby. Una ballata oscura sulle tracce di Nick Cave. Accompagnamento essenziale di chitarra con basso e batteria che si limitano a dare supporto ritmico. Questo fino a circa metà. Il brano impenna. Torna la distorsione. Il ritmo si fa incalzante. Il cantato alza i toni. Non è evocativo ma quasi urlato. Ulteriore cambio in vista del solo. Un break variegato di tempi differenti. La struttura circolare della canzone la fa poi tornare alle atmosfere introduttive. La successiva War dog è il brano più immediatamente accostabile allo stoner, se non fosse per gli interventi solisti.

Questi riportano la canzone su coordinate più street rock. Non sono presenti variazioni evidenti. Con Raise i ritmi rallentano ulteriormente per farsi più pesanti. L’ombra dei Black Sabbat fa capolino. Il brano resta su queste coordinate fino alla fine. Una menzione al solo che non avrebbe stonato in un brano di Ozzy. Si riparte a velocità con Loser’s victory. Qui il wall of sound si fa inspessisce dando vita ad un vero carroarmato. Non basta il ritornello orecchiabile a dare respiro. Ottimo lo special dopo il refrain.

Still here è un altro pezzo che richiama la tradizione settantiana del rock. Mid tempo, ritmiche serrate, chitarre in evidenza. I nostri sono lodevoli perché in questo contesto che rischierebbe di sapere di già sentito, riescono ad inserire dei passaggi che lo rinvigoriscono e, soprattutto, personalizzano. Con Call youre name si torna sul sentieri dell’ex cantante dei Misfits. Sia come incedere sia come riffing. Tuttavia anche qui i nostri stupiscono. Dopo il primo ritornello il brano si trasforma in una canzone acustica. Via le distorsioni e largo ad una chitarra acustica. Il disco chiude con Colors. Un brano sostanzialmente punk, diretto, senza fronzoli, melodico e potente.

Tirando le somme. Un buon prodotto quello dei Radio8. Immediato, diretto, senza troppe sovrastrutture. Ben suonato. Sulla produzione si sarebbe potuto fare qualcosa di più. In diversi frangenti la chitarra solista rimane schiacciata dalla base strumentale facendo perdere slancio alle canzoni. Una nota anche per quanto riguarda la voce. È un timbro perfetto per il genere, in alcuni punti però è parsa tentennante, non a proprio agio. Questo non inficia la qualità complessiva del lavoro. Ma con questi due accorgimenti sarebbe stato perfetto.

Un pensiero su “Radio8, un buon ritorno, con qualche riserva”
  1. Salve, sono nuova a questo genere di musica , ma devo dire che l’intervista agli ALBERI mi ha conquistata, a me ed al signor mio compagno Giuseppe che è qui a fianco a me, soprattutto la loro sensibilità “ambientale”. Cosa che non ti aspetteresti da questi “underground”, complimenti a loro e alla loro sensibilità. Ottima la gestione dell’intervista che non ha dato momenti di noia..
    Angela

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