Quando il linguaggio jazz raggiunge altissime vette

New Thing, quinto disco di Martino Vercesi, chitarrista milanese. Prima della recensione, una doverosa premessa. Per recensire in maniera adeguata un disco jazz si dovrebbe scendere in un’analisi brano per brano iperdettagliata e ipertecnica.

Diversamente non si riuscirebbe a spiegare in maniera adeguata quello che succede all’interno dei brani. Dovrebbe essere analizzato il tipo di arrangiamento, che tipo di eccezioni ci sono, la scelta espressiva, il colore delle composizioni e mille e mille altre sfaccettature. Il risultato sarebbe si una recensione puntuale e superprecisa, ma anche super noiosa per chi legge e non è avvezzo ad un certo linguaggio.

A questo punto, non essendo sulle pagine di un giornale specializzato, non resta che analizzare il disco da un punto di vista emozionale e blandamente formale. Chiariamo, il jazz presuppone in ogni caso una preparazione tecnica molto elevata da parte dei musicisti.

Chi arriva a registrare un disco jazz ha certo dalla sua elevatissima padronanza dello strumento. Magari non del linguaggio, ma dello strumento si. Detto ciò, questa quinta fatica di Vercesi è un disco jazz moderno con tutti i crismi.

Moderno ma che non dimentica da dove arriva proponendo anche brani più ‘standard’ come He won’t get far. Pur essendo il disco di un chitarrista non c’è solo chitarra, anzi. È lasciato molto spazio alla sezione ritmica con diversi passaggi di scambio tra batteria e contrabbasso. Soprattutto è lasciata libertà espressiva al sax di Rudi Manzioli che spesso fa da introduzione alla chitarra con lunghi a solo.

Come nella migliore tradizione jazzistica lode alla sezione ritmica, in particolar modo alla batteria di Matteo Rebulla che con molto delicatezza crea un tappeto con infinite sfaccettature e chiaro scuro. Non da meno il contrabbasso di Danilo Gallo. La definizione di moderno non rimanda a situazioni riconducibili a Pat Metheney.

No, si resta sempre in un ambito piuttosto classicheggiante. E forse questo può essere un po’ il limite per chi non è appassionato ma non ama il genere. La decisione del quartetto aiuta ad avere un impatto ‘minimalista’ se si vuole, il che non significa banale o scontato. Vuol dire solo con i giusti spazi per tutti e senza pompose sovrastrutture che avrebbero certo danneggiato l’insieme.

In conclusione quello di Vercesi è un ottimo disco. Notturno e fumoso come molti dischi jazz, adatto tutti ma non per tutti. Per poterlo ben apprezzare ci vuole tempo e si deve superare la tentazione di lasciarlo andare senza prestare la giusta attenzione.

Si perderebbero le sfumature, non si riuscirebbero ad apprezzare i numerosi unisono e ci si calerebbe a sufficienza nella sua atmosfera. Come detto, unico limite è per chi apprezza ma non ama questo genere. Alla lunga può risultare difficile da ‘sopportare’ come disco.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *