Intervista a cura di Benedetta Lattanzi

Ultimamente si parla tanto di cervelli in fuga, riferendosi a tutti quegli studiosi italiani che decidono di espatriare per cercar fortuna in terra straniera, ma di rado si sente parlare di musicisti in fuga. Riccardo Lovatto, giovane talento italiano del jazz, da qualche anno risiede stabilmente a Tokyo e lì ha inventato un metodo tutto nuovo, il MusicalShodo, che converte gli ideogrammi in musica. L’11 marzo uscirà Shinnen, il primo album del Wolf Gang 4et, progetto da lui fondato, e in questa intervista Lovatto approfondisce la sua esperienza nella Terra del Sol Levante, spiegando anche perché ha deciso di intraprendere questo viaggio ai limiti del mondo.

L’11 marzo uscirà il primo disco del Wolf Gang 4et, dal titolo Shinnen, parte del progetto “MusicalShodo”. Puoi spiegare come è nata l’idea del “MusicalShodo” e quale metodo segui per convertire i kanji in musica?

L’idea del “MusicalShodo” nasce da una fascinazione per lo stile calligrafico giapponese e per tutte le regole connesse alla scrittura degli ideogrammi. Appena arrivato in Giappone mi sono subito accorto che una lingua intermediaria come l’inglese (che qui è davvero poco parlato) non mi avrebbe aiutato molto. Mi sono quindi applicato cercando di memorizzare i kanji che più potevano servirmi nella vita di ogni giorno. Da qui la scoperta che ogni ideogramma debba essere scritto con un preciso ordine dei tratti, che ogni ideogramma possa essere letto in maniere diverse in base alla posizione e possa assumere significati variabili. Quello che mi ha più colpito, e che ancora mi colpisce, è l’assoluta opposizione tra il metodo alfabetico, che ci porta a poter leggere qualunque parola anche senza capirne il significato, e il loro metodo nel quale è possibile capire il significato di una parola senza però conoscerne il suono/lettura. Gli ideogrammi si portano dietro il senso di ciò che rappresentano.

Molti aspetti della scrittura dei kanji, come la direzione, ampiezza delle linee, entrata e uscita del pennello/penna, ordine dei tratti mi hanno molto ricordato tutti i segni che utilizziamo per “spiegare” la musica sullo spartito. Tutti i segni agogici e dinamici rendono una melodia quella che è, se la suonassimo senza accenti ne dinamiche non sarebbe più la stessa.  Il fatto che un kanji possa avere letture diverse in base al contesto mi ha subito ricordato la armonizzazione e ri-armonizzazione di una melodia che può fare luce su i diversi significati della stessa nota o linea  a seconda degli accordi che la sostengono.

Il metodo parte da un ideogramma (o più) e inizialmente ricalca le linee fisiche  (una per una) con linee melodiche (a linea ascendente del pennello coincide linea ascendente musicale; a tratto lungo corrisponde nota di valore “lungo”, a linea corta nota corta). La melodia così ottenuta va armonizzata (magari con diversi accordi in modo da spiegarne le varie possibili interpretazioni). Infine il suono del brano deve, e questa la parte più personale, ricordarmi la sfera di significato del kanji.

Da tempo risiedi a Tokyo e hai basato la tua carriera lì. Cosa ti ha spinto a viaggiare così lontano per coltivare la tua passione?

Questo viaggio è iniziato pensando di fare una piccola esperienza di scoperta che avrebbe dovuto durare 3 mesi, massimo 6. L’Italia in quel periodo non mi dava molti spunti e così un cambiamento radicale mi è sembrato una buona idea. A Milano, dove vivevo prima di trasferirmi, ho iniziato a frequentare un corso di lingua giapponese come attività per staccarmi dalla sola pratica musicale. Da lì è iniziato tutto.

Perché la scelta è ricaduta su Tokyo e non su altre città?

Scelto il Giappone come meta, Tokyo sembrava la scelta migliore. Speravo (sbagliando) di potermela cavare con l’inglese e sopratutto Tokyo è la città con il più alto numero di jazz club al mondo!

Quale è la cosa che ti ha stupito di più appena arrivato in Giappone e quale è la cosa che ancora ti stupisce di questo Paese?

Non è facile da spiegare, è più una sensazione. Ricordo il momento in cui sono atterrato all’aeroporto di Narita, ho notato che le “cose” in generale avevano una forma diversa. Vedevo tutto un po’ più tondeggiante, bianco, lucido. In generale mi colpisce sempre come ogni popolo abbia costruito le città e gli oggetti partendo dal proprio gusto estetico certo, ma anche dal mondo in cui pensa il mondo e la vita. Le porte si aprono nella direzione opposta, così come per chiudere una serratura la chiave va girata nel senso dei cardini (che per noi occidentali è quasi assurdo). Ancora oggi trovo difficoltà a capire la modulistica, il funzionamento della banche, delle tasse, della posta. Le cose che nella mia mente funzionano logicamente in un modo qui funzioneranno in un altro. Mi stupiscono le loro case piccole, il modo in cui spendono i soldi, la vita di coppia. In generale però tutto torna, il centro della loro società è l’azienda/il lavoro. A casa ci stanno poco (da qui le case piccole e la poca vita di coppia), vengono pagati bene perchè lavorano almeno 12 ore al giorno (da qui la possibilità di spendere soldi). In generale non è il mio tipo di società ideale ma lavorativamente parlando per ora funziona.

Conoscevi già qualche autore giapponese prima di trasferirti?

Devo dire la verità, sono partito un po’ disinformato. Certo conoscevo Makoto Ozone, Hiromi Ueara, Satoshi Inoue per le loro collaborazioni internazionali ma nulla più.

Quali sono le differenze sostanziali secondo te tra la scena musicale italiana e quella giapponese?

La differenza numero uno è che qui esiste un pubblico. 35 milioni di persone in un solo centro urbano aiutano a riempire i locali certo. La gente però ama la musica live, la cerca, la compra, paga i biglietti. Un’altra differenza è la presenza di musicisti di ogni genere, provenienza e cultura. In generale c’è spazio, c’è fusione e non c’è alcun bisogno di rubarsi i contatti, di giocare al ribasso, di parlare male degli altri. A Tokyo ci si rende conto di quanto il mondo sia grande e di quanta serenità abbia bisogno la crescita musicale individuale e collettiva per svilupparsi.

Pensi che prima o poi tornerai in Italia?

Devo dire la verità, per ora non è nei piani. Ho costruito una bella situazione qui e tornare non è una alternativa. Amo l’Italia per molti motivi e mi manca la musica e il modo di fare musica che per noi è così ovvio e naturale ma per ora penso il mio futuro qui o magari negli Stati Uniti.

Dal 2014 sei insegnante della “The American Guitar Academy” e tieni dei seminari all’Università di Osaka. Credi che se fossi rimasto in Italia avresti avuto le stesse opportunità?

Questa è una bella domanda, penso di no. A parte il lanciarsi in discorsi sulle opportunità non date e sul poco spazio della nostra scena musicale vorrei però dare la colpa a me stesso. Arrivato a Tokyo mi sono trovato spiazzato, ho dovuto impegnarmi ad imparare una lingua, partecipare a jam sessions (in cui mi sono reso conto di quanta strada avessi da percorrere), trovarmi un lavoro, ottenere un visto. Tutte queste difficoltà sono il primo passo del miglioramento, ti immergono in uno stato di concentrazione in cui puoi e devi dare il massimo. All’inizio niente sembra funzionare così dai di più, pensi a progetti, cerchi contatti, fai ore di treno, studi e impari ad ogni momento libero. Senza accorgertene migliori e tutto poco a poco inizia a funzionare.

In Italia non avrei mai fatto tutto questo perché la necessità non era lì a guidarmi.

Nel 2015 diventi direttore artistico dello spettacolo “Latino-Americando”, per il quale componi musiche di ispirazione latino-americana. La tua sembra essere un po’ una passione per l’esotico, una continua ricerca di fusione tra stili totalmente diversi: in futuro possiamo aspettarci delle novità sempre sulla stessa scia?

Trovo che le contaminazioni siano obbligatorie nel mondo di oggi. Una cosa che ho sempre amato è “lasciarmi affascinare” dall’arte. Da ogni ascolto (anche superficiale) possiamo sviluppare delle idee, incorporarle nel nostro modo di suonare e pensare la musica. Cerco sempre di ricordarmi la felicità della prima volta in cui ho suonato la chitarra o il pianoforte. Spesso devo ricordare a me stesso di tenere le orecchie e gli occhi aperti, di non aver paura di farmi guidare e cambiare da quello che ascolto. A volte una passeggiata, una chiaccherata, un viaggio mi danno più ispirazione di 6 ore di studio (che comunque vanno fatte…).

Latino-americando è un progetto che mi sta regalando molto e che vedrà la sua seconda edizione a Novembre di quest’anno. Durante il primo tour qui del Wolf Gang 4et in Giappone ho conosciuto Mario Castro ed Erika Rossi (organizzatori del progetto). Un anno dopo mi hanno chiesto di diventare direttore musicale di questo spettacolo, ho accettato ma alla condizione di essere istruito sulla musica latino-americana. Ho ascoltato tanto, imparato direttamente da musicisti del Sud-America.

Sono certo che contaminazioni culturali e musicali faranno sempre parte del mio modo di suonare. In generale però l’ispirazione gioca sempre un ruolo nella scelta dei progetti.

 

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