Intervista a cura di Benedetta Lattanzi

Unconventionalspaces è il nuovo album di Davide Tedesco, contrabbassista milanese che in questo suo primo lavoro ha voluto suonare il contrabbasso utilizzando tutte le sonorità che era possibile sviluppare da esso, aggiungendo anche elementi elettronici. Tempi Dispari ha incontrato l’artista prima del suo concerto del 4 marzo a Milano, durante il quale presenterà live la sua opera.

Il 4 marzo presenterai il tuo nuovo album, Unconventionalspaces: puoi parlare di questo lavoro?

Unconventionalspaces ha la particolarità di essere un disco di uno strumento solo, il contrabbasso, e ruota intorno al mio percorso musicale, attraversando tutte le peculiarità che da questo strumento sono riuscito a tirare fuori non solo cercando di dare qualcosa in più a livello anche di effetti elettronici e qualche spot vocale non inteso come l’utilizzo di una voce che fa un cantante, ma semplicemente un livello in più di suoni. A livello del concept, Unconventionalspaces si riferisce alle esperienze e all’unicità delle esperienze, e in questo senso tutti i brani sono stati costruiti solo improvvisando, dove l’improvvisazione vuole essere un modo per dire “Attraverso le varie fasi di ciò che sto facendo mi perdo nei suoni cercando di sviluppare quello che viene in quel momento”. Per me questo è un discorso parallelo alla vita di tutti i giorni, quindi l’esperienza di tutti i giorni diventa un punto chiave del concept.

In questo album hai suonato il contrabbasso sfruttando le varie potenzialità di questo strumento e utilizzando anche elementi come la loop station. Come hai utilizzato quest’ultima?

In realtà l’utilizzo della loop station, per quello che mi riguarda, non si basa solo sulla ripetizione di ritmi che ho comunque fatto, per me la loop station è più un modo di creare sovrapposizioni timbriche che non mi richiedono l’esattezza, ma mi permettono una completa libertà. È come se a un certo punto dialogassi con altri musicisti o mi trovassi all’interno di qualcosa più complesso ed elaborato come una trama di un tessuto.

Il suonare da solo è una scelta che credi prima o poi cambierà o hai intenzione di seguire sempre il percorso solista?

Tutto quello che c’è stato finora è avvenuto insieme ad altre persone e nello specifico ci sono stati dei duo per me molto importanti. Da qui in poi non lo so ancora, sicuramente la dimensione del suonare da soli è qualcosa di molto profondo, ti mette completamente in contatto con ciò che fai, quindi è una dimensione molto particolare alla quale tengo molto. Detto ciò, venerdì suonerò insieme a una violinista e una cantante con le quali mi piacerebbe già fare qualcosa in futuro. Ci terrei a mantenere la mia dimensione solista, ma non mi dispiacerebbe affatto riprendere in mano duetti o altre possibilità.

Nell’album ci sono anche elementi elettronici grazie al contributo di Ivan Segreto. Come hai integrato il tutto con il suono del contrabbasso?

Non avendo usato niente di trascendentale, nel senso che oltre ad aver usato la loop station ho usato dei delay prima dell’intervento di Ivan, l’elettronica si è inserita in modo abbastanza naturale e non ci sono state modulazioni timbriche che hanno snaturato completamente l’opera. In qualche modo è come se l’elettronica fosse diventato uno spettro del suono in se. Per quanto riguarda il lavoro di Ivan, ha cercato da ciò che c’era in partenza, di arricchire ancora di più a livello spaziale sempre utilizzando effetti elettronici, però mantenendo la caratteristica dello strumento e le peculiarità che si stava cercando di tirare fuori che sono prettamente acustiche. Ha fatto in modo che il suono si muovesse nello spazio in maniera più completa, a 360 gradi.

C’è un brano di Unconventional Spaces al quale sei più legato?

Sni. Ognuno di loro è legato all’esperienza e sono tutti unici e ognuno di loro mi ha dato qualcosa. Ci sono due brani che mi piacciono parecchio che sono Expose to the Universe e I Have Promises to Keep, and Miles to Go Before I Sleep, che in qualche modo rappresentano il mio percorso e il mio approccio.

Questo album nasce dalla sintesi di un percorso che ti vede fondare due progetti: International Troubadours e il NefEsh Trio. Potresti dire qualcosa di più su di essi?

Il NefEsh Trio è un trio che si è occupato da subito di musica legata all’esperienza ebraica ma di stampo mediterraneo diciamo. Tutti e tre in seguito abbiamo avuto esperienze musicali abbastanza diverse e abbiamo cercato di portarle all’interno del nostro percorso. Affrontiamo la musica di queste zone del mondo in maniera un pochino più personale, con la nostra sensibilità, rimanendo tutto acustico.

International Troubadours in questo momento purtroppo non è attivo, ma abbiamo fatto due dischi e abbiamo lavorato molto. Sono stati sia un duo che trio, nascevano come duo con il chitarrista Alberto Turra, in seguito abbiamo suonato con una cantante, Sara De Magistri, e con un batterista, Alberto Pederneschi. Noi lo definivamo un open duo, nel senso che da ciò che era il nostro incontro ci piaceva aprirci con le persone con le quali ci trovavamo bene a suonare. A livello musicale era un percorso legato molto al jazz-rock, visto che entrambi avevamo queste influenze e anche lì all’improvvisazione: a differenza del NefEsh Trio era un gruppo dove l’elettronica era molto presente, sia perché ad esempio la chitarra era elettrica e poi perché utilizzavamo effetti e cose affini.

Quali sono le esperienze di entrambi i progetti che hai poi riversato nella lavorazione di Unconventionalspaces?

In primo luogo questo carattere dell’elettrico e dell’acustico, in più è stato legato al cercare di guardarsi un pochino intorno e sfruttare tutto ciò che era il bagaglio musicale da una parte jazz, rock e di improvvisazione e dall’altra tutto il mondo acustico anche classico ed etnico. Tutto questo si è trasformato in un percorso che in qualche modo guarda alle musiche del mondo e della storia musicale in una sintesi che guarda ad un altrove musicale che ipoteticamente non c’è, nel senso che è come ispirarsi a qualcosa che non c’è ma al quale si vorrebbe arrivare. È stimolante perché non avendo punti di riferimento stabili diventa il cuore del percorso.

Diciamo che è anche un incentivo a fare qualcosa di non banale, no?

Assolutamente. In questo senso se posso citare una massima che si trova spesso nella musica indiana è quella che ogni musicista ha un genere musicale e questa è una cosa che mi ispira davvero molto. E anche questo è un bello spunto su cui lavorare.

Hai una vera e propria passione per la musica etnica e non prettamente occidentale, sembri molto ferrato sull’argomento.

Non la conosco a fondo, determinate cose non le conosco, ma mi sono documentato sul serio, mi è piaciuto addentrarmi nell’argomento. Ho ascoltato un sacco di musica indiana, cinese, giapponese o anche celtica, gaelica…tutte queste sono entrate a far parte del mio bagaglio e ogni tanto tutt’ora vado a cercarmi delle cose. Tra l’altro per alcune di esse, avendo una tradizione antichissima, è anche interessante vedere come l’essere umano si è approcciato al suono, alla musica e come abbia cercato di tirarne fuori qualcosa. Tutt’oggi penso che anche per chi fa cose prettamente diverse come la musica occidentale, tutto questo percorso può essere di grande ispirazione.

Hai collaborato con vari artisti (jazz, pop, rock), ma c’è un artista con il quale ti piacerebbe lavorare?

A me piace spaziare molto, quindi non esiste un artista nello specifico con il quale mi piacerebbe collaborare, esistono invece un sacco di musicisti anche perché ormai oggi siamo circondati da una pluralità di cose abbastanza impressionante, quindi mi ritrovo a conoscere cose completamente diverse con i quali mi piacerebbe approcciarmi. Non ce n’è uno solo.

Una domanda che non ti hanno mai fatto e vorresti ti fosse fatta.

Non lo so, forse sarebbe “Come pensi che la musica possa arricchire l’esperienza umana a livello profondo. Può in qualche modo darci la possibilità di fare un passo in più nell’evoluzione dell’uomo”.

E la risposta quale sarebbe?

Potrebbe essere, mettiamola sul condizionale (ride), che secondo me è così perché forse non abbiamo ancora capito il significato profondo del suono e della sua natura.

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