Testo a cura di Carmine Rubicco

E arrivò il giorno, come direbbe melodrammaticamente qualcuno.
Frase tragicamente non fuori contesto.
La musica è ufficialmente morta ed è stata uccisa dagli stessi che la promuovono.
Qualche giorno fa è stato annunciato che Havas Village/Universal Music hanno presentato l’iniziativa “Il potere della musica per i brand”, progetto che lega in modo strettissimo musica e business della moda.
Non si tratta di una notizia come tutte le altre. No, non in questo caso e non ora.
Letta in maniera differente si potrebbe riassumere come la totale e definitiva mercificazione della più trasversale delle sette arti. Se fino ad ora andare ad un concerto ha significato andare ad ascoltare musica, da oggi in poi non sarà più così.
L’espressione attraverso le sette note perde completamente potere lasciando spazio a moda, sfilate, brand e chi più ne ha più ne metta.
Da oggi in poi non si assisterà ad un concerto ma ad una passerella di diverse ore di capi d’abbigliamento, profumi, scarpe, acconciature. Quando il pubblico uscirà dal concerto non ricorderà e non avrà capito come si è esibito l’artista, ma solo com’era vestito e quante volte ha cambiato d’abito. Volendo estremizzare il rischio sarà quello di vedere ai concerti orde di persone perfettamente lobotomizzate e vestite come l’artista.
Questo già accade nel mondo del metal, ma con una differenza, si tratta di senso di appartenenza e non di mera emulazione. Emulazione che vede svuotato di ogni significato l’assistere ad un concerto. Vede svuotato di ogni significato l’indossare la maglietta di un determinato gruppo.
Estremizzando ancora, chi può assicurare che per assistere al concerto tal dei tali non si dovrà obbligatoriamente indossare un capo dello stilista x perché è lui che paga? E se i biglietti fossero in vendita non da chi di dovere ma solo legati ai negozi dello stilista y? Se compro i calzoni di z potrò avere il biglietto se no no? Soprattutto, che ruolo giocherà la musica in tutto ciò se non quello di diventare da momento di aggregazione a separatore sociale? “Io posso permettermi la camicia di xy quindi posso andare al concerto e tu no, sfigato”.
Lo si nota già in contesti più semplici. Pur di possedere l’ultimo modello del tal telefonino si fanno file interminabili. E si tratta solo di un oggetto che il marketing ha trasformato in status simbol. Che accadrà oggi che sul palco più delle doti canore o capacità esecutive conta da chi l’artista è vestito, che profumo indossa e che deodorante ha utilizzato?
L’aspetto più negativo e preoccupante è come verrà vista l’iniziativa dalla massa di ascoltatori occasionali e, soprattutto, dalle nuove generazioni.
Quello che spaventa è l’idea che tali disastrose e catastrofiche ipotesi possano davvero trasformarsi in realtà. Fino ad ora fare le foto con i cellulari ai concerti poteva essere sconsigliato e limitante. Ora sarà consigliato e conterà più di ascoltare.
Dovremo andare a casa con in testa non un motivetto ma l’idea di un altro bisogno indotto ben piantata nel cervello, come dovremo andare a letto pensando non ai cori ma al cartellino del prezzo della giacca di tizio.
Una brutta morte per la musica intesa come arte.
Unica via d’uscita, l’underground e l’autoproduzione. È sempre il business ad aver bisogno degli artisti e non viceversa. Senza cantante un concerto non avrebbe molto senso.

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